un ritratto di Cartesio

L'uomo come paradosso

inspiegabile, senza la fede cristiana

icona per espandere il menu interno

Secondo P. siamo una realtà paradossale: vi sono infatti in noi aspetti fortemente contrastanti. Da un lato una dimensione di grandezza e dall'altro una di miseria. Lo evidenziamo nello schema seguente:


Miseria

Grandezza

giunco

pensante

basta un vapore ad ucciderlo

ma è consapevole: vale più del mondo intero

spodestato

Re

né angelo

né bestia

non troviamo in noi che incertezza

desideriamo la verità

non troviamo che miseria e morte

cerchiamo la felicità

siamo incapaci della certezza e della felicità[437]

ma siamo incapaci di non desiderare la verità e la felicità


Questa dimensione paradossale costituisce un problema e rende la vita drammatica. Ma vediamo più in dettaglio come Pascal descrive con termini netti ed incisivi la condizione umana, la sua problematicità e l'apparente contraddizione:

Descrizione dell'uomo: dipendenza, desiderio d'indipendenza, bisogno.

Condizione dell'uomo: incostanza, noia, inquietudine.

Gli uomini non sopportano rimanere tranquilli, a riposo, perché sentirebbero emergere dal profondo di se stessi quell'inquietudine e quel vuoto esistenziali che nascono dalla consapevolezza della propria piccolezza e dell'incapacità di risolvere il bisogno più vero dell'anima.

Nulla è tanto insopportabile per l'uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione.

E' nel riposo, dunque, che diventa sensibile il significato della nostra condizione, debole, mortale, dipendente. Il nostro desiderio d'indipendenza crea il bisogno.

Rendiamoci dunque conto delle nostre possibilità: noi siamo qualcosa, ma non siamo tutto; quel tanto di essere che possediamo ci nasconde la vista dell'infinito. [...] Questa è la nostra vera condizione, la quale ci rende incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti ed instabili, sballottati da un capo all'altro. Qualunque scoglio a cui pensiamo di attaccarci e restare saldi, viene meno e ci abbandona e, se l'inseguiamo, sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna. Per noi nulla si ferma. Questa è la nostra naturale condizione, che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione: desideriamo ardentemente trovare un assetto stabile e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all'infinito, ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra s'apre in abissi.

Questa è la condizione umana: l'uomo è un essere instabile ed incerto; non è né angelo né bestia.(fr. 358). D'altra parte l'uomo non può essere definito dal suo limite, dalla sua contraddizione, poiché egli stesso ha coscienza della propria miseria:

La grandezza dell'uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di essere miserabile. Dunque essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande equivale a conoscere di essere miserabile..

La grandezza e la miseria dell'uomo sono, dunque, profondamente connesse l'una all'altra; non è possibile slegarle, poiché ciò equivarrebbe ad una riduzione dell'io umano. Infatti è: pericoloso mostrare troppo all'uomo quanto è simile alla bestia, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è ancora pericoloso lasciargli ignorare l'una e l'altra. Ma è utilissimo prospettargli l'uno e l'altra.(fr. 418). Pascal vuol dirci che l'uomo non deve credere di essere una bestia, ma neppure deve avere la presunzione di ritenersi un angelo. Proprio per questo:

se si esalta, l'abbasso; se s'abbassa, lo esalto; lo contraddico sempre fino a che comprenda che è un mostro incomprensibile.

Pascal sa che gli uomini, basandosi solo sulle proprie forze, potranno solamente arrivare alla consapevolezza della propria incomprensibilità, ma non a trovare il senso vero e ultimo dell'umana esistenza.

L'uomo è, dunque, consapevole del suo stato e si riconosce infelice, ma questa sua infelicità è una prova della sua grandezza; bisogna quindi ammettere che le sue miserie sono quelle di un gran signore, miserie di un re spodestato. (fr. 398).

Nel famosissimo fr. 347, si afferma che la grandezza dell'uomo è nel pensiero:

L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E' con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale.

E' il pensiero a rendere l'essere umano diverso da tutte le altre creature che non sanno di esistere.

Tutto l'universo non può realizzare una sola azione dell'io umano, poiché qualsiasi atto posto dall'io è di un ordine infinitamente superiore alla materia del cosmo. L'uomo è l'unico punto nell'infinito che può pensare ed avere coscienza di sé e della realtà. Bisogna riconoscere come acutamente Pascal colga, sia a livello intellettivo che esistenziale, il senso profondo del Mistero.


Il dramma che è la nostra vita può essere a) fuggito, o b) affrontato in modo parziale e riduttivo, oppure può essere c) affrontato in modo adeguato.


3a) la fuga dal dramma: il divertissement

Gli esseri umani cercano di sfuggire al dramma e al problema costituito dalla loro stessa esistenza, dalla loro persona rifuggendolo, non pensandoci: si tuffano perciò nel divertimento (divertissement), che non comprende solo lo svago e il gioco, ma qualsiasi attività l'uomo intraprenda, lavoro incluso, che abbia come reale fine non l'interesse positivo che si prova in quella occupazione, ma la distrazione dal pensiero circa il proprio dramma, il proprio destino.

Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici. (fr. 168).

Gli uomini cercano con affanno il piacere, il divertimento, perché non sanno restare tranquilli in una camera [ ...] e non si cercano le conversazioni e i divertimenti, se non perché non si può restare in casa propria con piacere (fr. 139).

Essi non cercano un godimento tranquillo e pacifico, ma il rumore e il trambusto, la distrazione che distoglie dal pensare seriamente a se stessi.

Noi non cerchiamo né il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte (fr. 139).

Anche un re non può sfuggire a questa misera condizione umana: se è lasciato senza divertimenti è assalito dalle preoccupazione e dalle incertezze della vita. E proprio per poter essere felice, il re è circondato da gente che pensa soltanto a divertire il re e a impedirgli di pensare a se stesso. Perché se pensa, quantunque re, è un infelice (fr. 139).

Gli uomini, dunque, non sanno stare soli con se stessi e ricercano il giuoco, la guerra non perché, nel profondo del cuore, desiderano il denaro o la vittoria, ma perché l'occupazione li distrae e impedisce loro di pensare: questo è tutto quello che gli uomini hanno potuto inventare per diventare felici. (fr. 139).

I filosofi, i quali giudicano il mondo poco ragionevole quando passa tutto il giorno ad inseguire una lepre, non conoscono la vera natura umana e non capiscono che gli uomini amano la caccia e non la preda: quella lepre non ci garantirebbe dalla visione della morte e delle miserie, ma la caccia, che ce ne distoglie, ci garantisce (fr. 139). Ma questi stessi uomini che possiedono l'istinto che li porta a cercare il divertimento e l'occupazione, hanno un altro istinto segreto che è un residuo della grandezza della nostra primitiva natura, il quale fa loro conoscere che la felicità si trova effettivamente nel riposo e non già nel tumulto (fr. 139). E così sono portati al riposo mediante l'agitazione e ad immaginarsi sempre la soddisfazione che non possiedono, che arriverà una buona volta. (fr. 139)

D'altra parte nel divertimento non può essere la vera felicità perché esso è fondato sull'illusione. Esso è la più grande delle nostre miserie perché è uno sfuggire il paradosso che è l'uomo reale, la contraddizione che questi non sa risolvere; è fondamentalmente una fuga dalla consapevolezza dell'umana miseria.

Se il divertimento aiuta a sfuggire alla noia, esso però ci allontana dalla nostra realtà e ci conduce, senza che ce ne accorgiamo, alla perdizione di noi stessi.

L'unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore delle nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte.(fr. 171).

Von Balthasar osserva che Pascal passa in rassegna le varie forme di divertimento, anche quelle che più ci sembrano naturali poiché in esse viene riconosciuta sempre la fuga dall'essere con se stessi, cioè dal rientro in Dio, dal redire ad cor. Dallo sport alle varie forme di intrattenimenti sociali fino al lavoro scientifico, Pascal vede tutto un sol traffico dell'uomo sotto la legge di questa segreta, pazza, fuga. Vivere nel futuro o nel passato solo per sottrarsi al sì dell'ora presente (Balthasar, p. 196).

Non stiamo mai nei limiti del tempo presente. Anticipiamo l'avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare, quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo; quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorazzare in tempi che non ci appartengono e da non pensare all'unico tempo che ci appartiene; siamo così fatui da sognare i tempi che non esistono più e da fuggire senza riflettervi, il solo che sussiste. Perché, di solito, il presente ci tormenta. [...] Per questo, non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo diverremo giammai. (fr. 172)

3b) le false soluzioni

I più pensosi tra gli uomini però hanno affrontato in qualche modo il problema, ma chi si è fermato alla sola filosofia ha comunque ridotto il problema, cercando di non vedere il paradosso e limitandosi a considerare soltanto uno dei due lati dell'uomo: o la sola grandezza (è l'errore degli stoici) o la sola miseria (è l'errore degli scettici).

Pascal evidenzia il vano tentativo degli stoici (e in particolare di Epitteto) di trovare una soluzione al problema dell'uomo: quei grandi sforzi interiori, a cui l'anima arriva talvolta, sono cose in cui essa non dura; vi si slancia soltanto, non come sul trono, per sempre, ma per un momento solo. (fr. 351)

Se la filosofia di Epitteto conduce quindi alla superbia, quella di Montaigne ne corregge gli eccessi razionalistici, coinvolgendo ogni cosa in un dubbio universale e così generale che questo dubbio coinvolge se stesso, e cioè il fatto stesso che egli dubiti, e dubitando anche di quest'ultima proposizione, la sua incertezza si avvolge su se stessa in un circolo perpetuo e senza soste.(Pascal, Pensieri).

In fondo Epitteto e Montaigne indicano due modi astratti di guardare alla condizione umana: l'uno considerando la grandezza dell'uomo la identifica con l'autosufficienza, l'altro cogliendo la miseria umana la chiude nei confini dell'insignificanza; l'uno fa dell'uomo un Dio, l'altro lo degrada a livello delle bestie. Ecco cosa dicono gli stoici: Alzate gli occhi al cielo [...] mirate colui al quale rassomigliate e che vi ha creato perché lo adoriate. Voi potete rendervi simile a lui; la saggezza li renderà uguali a lui se volete seguirla. (fr. 431). E gli scettici: Abbassate i vostri occhi verso la terra, miserabili vermi che siete, e mirate le bestie di cui siete compagni (fr. 431). Ma entrambi non hanno trovato la via giusta. Infatti

Considerando gli uni la natura come incorrotta e gli altri come inguaribile, non hanno potuto evitare l'orgoglio o la pigrizia, che sono le due sorgenti di tutti i vizi; poiché non possono fare altro che o abbandonarvisi per viltà o uscirne per orgoglio. Infatti, se conoscevano l'eccellenza dell'uomo, ne ignoravano la corruzione, cosicché evitavano bensì la pigrizia ma si perdevano nella superbia; e se riconoscevano l'infermità della natura, ne ignoravano la dignità, di modo che potevano evitare la vanità ma solo per precipitare nella disperazione.

Così nello stoicismo e nello scetticismo del suo tempo Pascal incontra elementi stimolanti che lo inducono a riflettere sul problema dell'uomo, ma non trova la soluzione. Anzi, più si riflette sulla situazione della realtà umana e più ne aumenta la conoscenza, a mano a mano che in noi cresce la luce, scopriamo maggiore grandezza e maggiore bassezza nell'uomo.(fr. 443).

Osserva Von Balthasar che per Pascal la conclusione della via filosofica consiste nel lasciare al loro posto Epitteto e Montaigne confrontati tra loro, l'uno che pretende la grandezza dall'uomo e l'altro che dimostra la grandezza che non ha, e nel lasciarli precisamente come contrapposti che non si integrano, per esempio, nell'immagine di una maestà armonica o tragico-eroica dell'uomo, nel lasciarli cioè come contraddizioni i cui estremi si distruggono espressamente a vicenda invece di integrarsi. (Von Balthasar, Gloria, Stili laicali, tr. it. Jaca Book, p. 197).

3c) la vera soluzione: la fede cristiana (peccato originale e vocazione all'Infinito)

Il Cristianesimo si presenta come qualcosa che supera la razionalità filosofica, ma che risulta essere l'unica spiegazione della realtà, e dell'uomo, in grado di risolvere tutti i problemi che quella ha posto, in particolare la condizione paradossale prima evidenziata, di intreccio tra grandezza e miseria.

Perché? Perché con i suoi dogmi spiega l'uomo, non censurando nessun fattore della sua esperienza: spiega il male e la miseria dell'esistenza umana con il dogma del peccato originale; e spiega la grandezza dell'uomo con il suo essere creato a immagine e somiglianza di Dio e redento da Cristo, che lo chiama, per grazia e mediante il Suo sacrificio redentore, a partecipare alla vita di Dio.

il peccato originale

L'uomo è proteso verso la verità, ma non riesce ad afferrarla: Desideriamo la verità, e in noi non troviamo che incertezza, (fr. 437); aspira prepotentemente alla felicità, a trovare una risposta esauriente al significato della vita, ma deve amaramente constatare che siamo incapaci di non desiderare la felicità e la verità e siamo incapaci della certezza e della felicità (ivi 437).

Il conflitto tra i desideri dell'uomo e la sua realtà, fra la grandezza e la miseria, inducono a riconoscere che la natura umana è una natura decaduta: Questo desiderio ci viene lasciato sia in punizione sia per farci sentire da che punto siamo caduti (ivi fr. 437).

L'uomo avverte nella sua condizione, in alcuni dei caratteri della sua esistenza, dei pesanti limiti, la presenza di qualcosa che non dovrebbe esserci, o l'assenza di qualcosa che dovrebbe esserci; non potrebbe riconoscere tutto questo, se non avesse in sé l'idea di un valore - o di un complesso, o di un'unità di valori - e l'aspirazione ad esso ( o ad essi). La coscienza della miseria nasce cioè nell'uomo insieme con l'idea di una grandezza oggi non attuale ma alla quale l'uomo tende. (Bausola, p. 46). Anche Von Balthasar mette in evidenza che: L'uomo non è nel suo stato congenito; è in una situazione esistenziale di estraneazione. Qui, in questo rapporto verticale dell'esistenza superiore congenita e dell'attuale esistenza inferiore innaturale, sta il primo accesso verso una leggibilità della sua figura.. (Von Balthasar, p. 193).

«La grandezza dell'uomo è così evidente che si deduce dalla sua miseria. Infatti ciò che è natura negli animali lo chiamiamo miseria nell'uomo; dal che deduciamo che essendo oggi la sua natura simile a quella degli animali, egli è decaduto da una migliore natura che un tempo gli era propria.» (fr. 409)

A tal punto, continua Pascal, «questa duplicità dell'uomo è cosi evidente che alcuni hanno creduto persino che abbiamo due anime.» (fr. 417)

«Umiliati, ragione, impotente; taci natura imbecille, impara che l'uomo sorpassa infinitamente l'uomo, e impara dal tuo Signore la tua vera condizione che ignori. Ascolta Dio.» (fr. 434)

Noi non possiamo concepire lo stato glorioso di Adamo dall'istante stesso della sua creazione al momento della sua caduta, né come il suo peccato possa trasmettersi in noi, ma ciò che ci è utile sapere per uscire dalla contraddizione esistenziale è che «siamo miserabili, corrotti, separati da Dio, ma riscattati da Gesù Cristo.» (fr. 560)

Se soltanto la primitiva caduta umana può spiegare la miseria dell'uomo, solo l'avvenimento della Redenzione, può soddisfarne l'anelito alla felicità e alla verità, quei desideri naturali del suo cuore, tracce indelebili dell'originale grandezza, perché gli uomini sono nel medesimo tempo indegni di Dio e capaci di Dio: indegni per la loro corruzione, capaci per la loro primitiva natura. (fr. 557).


il Cristianesimo

Non si potrebbe spiegare la grandezza dell'uomo se non ammettendo quello che dice il dogma cristiano: l'uomo è stato creato per un Destino di gloria, per qualcosa di grande; nel suo cuore brucia un anelito di felicità perfetta, che non si potrebbe spiegare in un semplice ammasso di materia, al confine col nulla.

Certo, questa argomentazione non è una vera prova razionale della verità del Cristianesimo, ma evidenzia come il Cristianesimo sia l'unica spiegazione che non trascuri nessun fattore della realtà, e come, voltando le spalle ad esso, resta solo una alternativa: l'assurdo.

«Le prove della nostra religione non sono tali da potersi dire assolutamente convincenti. Ma sono tali che non si può affermare che il crederci significa mancare di ragione. C'è in essi evidenza e oscurità per illuminare gli uni e confondere gli altri. Ma l'evidenza è tale che sorpassa, o almeno uguaglia, l'evidenza del contrario; cosicché non è la ragione a determinarci a non seguirla, ma soltanto la concupiscenza e la malizia del cuore. In questo modo c'è in essa abbastanza per convincere: affinché sia chiaro che in quelli che la seguono è la grazia e non la ragione a spingerli a seguirla, mentre in quelli che la fuggono è la concupiscenza e non la ragione a farla fuggire.» (fr. 564)

📂 In questa sezione