ritratto di Aristotele

Aristotele: la metafisica

lo sguardo più sintetico sulla realtà

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C'è una scienza che studia l'essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto taleἜστιν ἐπιστήμη τις ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν
καὶ τὰ τούτῳ ὑπάρχοντα καθ' αὑτό.

che cosa è

Il suo fine è la contemplazione, cioè la conoscenza (disinteressata) della verità. Infatti, secondo Aristotele «tutti egli uomini, per natura, tendono al conoscere» (Πάντες ἄνθροποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει).

διὰ γὰρ τὸ θαυμάζειν οἱ ἄνθρωποι καὶ νῦν καὶ τὸ πρῶτον ἤρξαντο φιλοσοφεῖν (...). ὁ δ' ἀπορῶν καὶ θαυμάζων οἴεται ἀγνοεῖν (...). ὥστ' εἴπερ διὰ τὸ φεύγειν τὴν ἄγνοιαν ἐφιλοσόφησαν, φανερὸν ὅτι διὰ τὸ εἰδέναι τὸ ἐπίστασθαι ἐδίωκον καὶ οὐ χρήσεώς τινος ἕνεκεν. (Met, A, 2, 982b) «Gli uomini infatti hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (...) Ora chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere (...) Cosicché se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica

θεωρητικῆς μὲν γὰρ τέλος ἀλήθεια «Il fine della [scienza] teoretica [è] la verità» (Met, A elatton, 1, 993b).

Il che significa che c'è nell'uomo il desiderio di conoscere la verità, e questo desiderio è più forte di qualsiasi interesse pratico. L'uomo desidera sapere il senso della sua esistenza, come è davvero, non piegandone la ricerca a un progetto predeterminato.

Tuttavia è negativo che Aristotele pensi che la meraviglia (il «thaumàzein») sia superabile, quasi l'uomo potesse capire tutto. La verità è che siamo sempre davanti a una misura più grande della nostra: non ci siamo fatti noi, e non abbiamo fatto noi il mondo.

Per questo, come diceva S.Gregorio Nazianzeno, solo lo stupore fa conoscere. Riecheggiando del resto l'ammonimento di Cristo a ritornare «come bambini». Ossia, come avrebbe fatto dire Péguy a Dio, ne Il mistero dei santi innocenti, «l'uomo forte non è il mio forte».


La metafisica ha quattro significati fondamentali

aitiologia

la metafisica come scienza delle cause prime

In quanto tale la metafisica è scienza delle cause prime, ossia dei supremi perché. Si possono in effetti conoscere dei perché prossimi, che si costituiscono in realtà come dei "come" in rapporto ai perché supremi, alle cause prime, che la metafisica considera.
Tali cause prime sono quattro: materiale, formale, efficiente (o agente) e finale.

1.La causa materiale o materia è il sostrato indeterminato, privo quindi di caratteri specifici. Di questa causa si sono occupati essenzialmente i primi filosofi (dalla scuola ionica a Eraclito).

2.La causa formale o forma è il fattore determinante, ciò che fa sì che la materia indeterminata assuma certi caratteri distintivi. Di questa causa si è occupato in particolare Platone, con la sua teoria delle idee.

3.La causa efficiente (o efficace, o agente) è ciò da cui è prodotto l'effetto: è la causa nel senso corrente del termine. è Empedocle ad aver per primo individuato questa causa, da lui collocata nelle forze di Amore e Odio.

4.La causa finale o fine è ciò verso cui tende la cosa causata. Di questa causa ha parlato soprattutto Anassagora, con la sua teoria del Nous, che organizza tutta la realtà dei semi in modo ordinato e finalizzato.

Materia e forma sono principi intrinseci alla cosa, al punto che non si possono scindere. Causa efficiente e finale sono invece estrinseci alla cosa causata, la prima precedendola, la seconda seguendola.

ontologia

la metafisica come scienza dell'essere in quanto essere

All'inizio del libro Gamma Aristotele afferma che vi è una scienza che studia l'essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale (Ἔστιν ἐπιστήμη τις ἣ θεωρεῖ τò ὄν ᾗ ὄν καì τὰ τούτῳ ὑπάρχοντα καθ'αὑτό). La metafisica è infatti, nel suo secondo senso, scienza dell'essere in quanto essere.

analogia=uni-molteplicità dell'essere

L'essere, ciò che è in ogni cosa, è al contempo uno (identico nelle diverse cose) e molteplice (poiché le cose sono comunque molte), ossia è analogo. Aristotele afferma quindi la analogia dell'essere.

Atena pensosa
La filosofia, per A., inizia con lo stupore ma rifluisce poi nella pretesa di aver capito. L'esito esistenziale è un'ultima tristezza.

In altre parole l'essere non è né univoco, né equivoco: univoco è un termine detto nello stesso identico senso di due cose diverse (ad esempio “cavallo” detto di due cavalli), equivoco è un termine detto di due cose diverse con senso (totalmente) diverso, come “polo” detto di una maglia, detto di un polo terrestre e del gioco del polo; un termine è invece predicato analogicamente quando viene detto di cose diverse con un senso parzialmente identico e parzialmente diverso, come “viola” detto del colore viola e detto della viola piantina, o “rosa” detto del colore o detto della pianta, o, per fare l'esempio di Aristotele, “sano” detto di una persona, o del suo colorito, o del cibo (o del clima) più adatto a garantire la salute.

Tra i vari enti esiste, in questo senso, una analogia: si dice analogicamente, cioè né equivocamente né univocamente, che “è” una cosa e, ad esempio, un suo colore, un suo effetto operativo, un ricordo di essa, un sentimento da lei suscitato.

Così Aristotele supera definitivamente Parmenide, che concepiva l'essere come univoco, completando Platone, che aveva cercato di staccarsi dall'Eleate, soprattutto nel Parmenide e del Sofista, ma, secondo lo Stagirita, senza riuscirvi pienamente. In effetti Platone, secondo Aristotele, concepiva ancora l'essere come un genere, sia pure un genere trascendente, ossia come un universale sostanziale.

unità dell'essere

In quanto uno, l'essere ha delle leggi, dei principi a cui obbedisce: il principio di identità, di non-contraddizione e del "terzo escluso", per cui è impossibile che la stessa cosa sia e non sia (τò γàρ αὐτὸ ἅμα ὑπάρχειν τε καì μὴ ὑπάρχειν ὰδύνατον τῷ αυτῷ καì κατà τò αυτό [Γ, 3, 1005b 19/20]).

Come si dimostrano tali principi supremi? Non possono essere dimostrati positivamente. è da pazzi dice infatti Aristotele, chiedere la dimostrazione di tutto: alcune cose sono autodimostrantesi: sono evidenti. Se si pretendesse di dimostrare tutto si cadrebbe in un circolo vizioso: si dimostrerebbe A con B, B con C e così via, fino a Z, che sarebbe dimostrata con A. Il che sospenderebbe il tutto a una ultima non dimostrazione. Da un lato quindi i principi supremi sono immediatamente evidenti.
Tuttavia una qualche forma di dimostrazione esiste: per assurdo. Mostrando che chi volesse negarli non potrebbe essere coerente.

Chi volesse negare i principi supremi dovrebbe essere come un tronco (ὃμοιος φυτῷ): infatti qualsiasi parola o discorso uno pronunzi intende dare con ciò stesso un senso preciso al suo discorso o alla sua parola. Nessuno parla per dire una cosa e il suo contrario e infinite altre cose. Ma così dovrebbe essere se il principio di non contraddizione non fosse vero. Il che dimostra che è impossibile, di fatto, negarlo (Γ, cap. 4/6).

molteplicità dell'essere

Si danno quattro significati fondamentali dell'essere: secondo il vero e il falso, accidentale, secondo potenza e atto, secondo le categorie


specificazioni

1. Essere secondo il vero e il falso (to on os alethès): è l'essere in quanto pensato: solo questo essere può essere falso; infatti la falsità è solo nel giudizio del soggetto che non si "adegua" all'oggettività del reale. Non esistono "cose false", ma pensieri falsi. Il che significa che l'essere in senso vero e proprio coincide col vero. Il che è molto prossimo al dire che la realtà non inganna, ma è il soggetto umano a porre diaframmi alla verità, a cercare di alterare ciò che di per sè sarebbe retto e limpido.

Kore
L'essere accidentale, cioè il concreto non ha senso: i volti che amiamo si disferanno per sempre nel nulla

2. Essere accidentale: è l'essere che di fatto si trova ad accadere, ma potrebbe anche non accadere; è senza essere radicato nelle profondità necessarie delle strutture intelligibili che costituiscono l'intelaiatura del reale. Di fatto è accidentale ogni realtà particolare e ogni evento concreto. Necessarie sono solo le struttura intelligibili, le nature specifiche e le leggi universali. Questo significa che per Aristotele io che scrivo e tu che leggi esistiamo per un caso, e per caso ci è accaduto nella vita quello che ci è accaduto: il particolare in quanto tale non ha senso, è assurdo. Sensato è unicamente l'universale. Ma in questo modo, per Aristotele, la vita concreta non è salvata.

3. Essere secondo potenza e atto. Con questi concetti Aristotele imposta la sua soluzione al problema della contraddittorietà del divenire, quale la aveva prospettata Parmenide. Per il quale il divenire è l'essere del non essere e il non essere dell'essere. Invece il passaggio è non dal non-essere (assoluto) ma da quel non-essere relativo che è l'essere potenziale all'essere attuale. Il che non implica contraddizione. Essere potenziale è ad esempio il seme rispetto alla pianta che se ne svilupperà: il seme è in atto seme, e in potenza pianta.

L'essere attuale è determinato, è sempre qualcosa di preciso, mentre l'essere potenziale, la potenza, è a) indeterminato, non però b) totalmente indeterminato: un seme a) può diventare una pianta più alta o più bassa, con tanti rami o con pochi rami, b) ma non può un seme di pesco svilupparsi in una pianta di ulivo, ad esempio. Il che, in altri termini, significa che l'essere potenziale non è il nulla, ma è qualcosa, seppure qualcosa di (relativamente) indeterminato.

In quanto indeterminato l'essere potenziale è più imperfetto di quello attuale, è imperfetto. E infatti si passa dalla potenza all'atto solo grazie all'essere attuale: il legno è potenzialmente brace incandescente, ma lo può diventare in atto solo grazie a qualcosa che bruci già in atto. In altri termini, a differenza di quanto dirà nell'800 Hegel il divenire è subordinato all'essere, è reso possibile dall'essere, è più imperfetto dell'essere.

In qualche modo la potenza sta all'atto, nella sostanza corporea, come la materia sta alla forma: la materia è il fattore potenziale, la forma il fattore attualizzante e attuale.

4. Essere secondo le categorie. Ossia sostanza, qualità, quantità, luogo, tempo, relazione, agire, patire. Una distinzione essenziale va fatta tra la categoria di sostanza, che è la principale, e quelle degli "accidenti".

Solo la sostanza "sussiste", mentre gli accidenti "ineriscono" alla sostanza, come sue determinazioni. Non esiste il verde in sé, ma il verde di una data sostanza (ad esempio di una pianta), mentre la pianta esiste in sè stessa, non "appoggiandosi" ad altro, non inerendo.

Inoltre la sostanza resta (substat), anche se i suoi accidenti cambiano: una persona è la stessa sostanza quando è lattante, quando è adolescente e quando è adulto, anche se cambiano gli accidenti quantità (altezza, peso), qualità (acquisisce nuove conoscenze, cambia stati d'animo), relazione (diventa ad esempio marito, padre, e datore di lavoro, amico di Tizio e di Caio) e altri.

Da non confondere il concetto di accidente e quello di essere accidentale: è accidentale che una sostanza abbia questi accidenti, ma è necessario che abbia degli accidenti; viceversa le sostanze seconde, in pratica le specie, sono necessarie, ma le sostanze prime, individuali, sono accidentali, appartengono all'essere accidentale.

usiologia

la metafisica come scienza della sostanza

Nell'essere, tra i vari tipi di essere un posto centrale lo occupa la sostanza (pron.: usìaοὐσία). Sostanza è un essere che non inerisce ad altro (non è qualcosa di qualcos'altro: come il bianco che è sempre bianco di qualcosa, il bianco di una parete, o il bianco di un foglio), ma è sostrato di inerenza di altro (cioè degli accidenti): è altro che “inserisce” alla sostanza, che è caratteristica della sostanza. Per stare agli esempi fatti: la parete è la sostanza, il suo essere bianca è “accidente” (se fosse rossa invece che bianca sarebbe ancora una parete, anzi quella parete), il suo essere liscia è “accidente” (=se fosse ruvida invece che liscia sarebbe ancora quella parete).

Da notare che essere caratteristica accidentale, o accidente, non significa essere una “parte” di qualcosa, ma una “caratteristica” (nel senso di qualcosa che inerisce, appartiene in modo come dire intrinseco a ciò di cui è accidente) di qualcosa. Infatti la parete è in qualche modo di qualcosa, ad esempio è la parete di una casa, ma nel senso che è una delle parti della casa. Una parte è qualcosa di scomponibile, per così dire, qualcosa di esterno alle altre parti. L'accidente invece è qualcosa di in qualche modo “interno” alla sostanza: una parete deve avere un colore (se non fosse bianca, sarebbe di un altro colore, ma qualche colore lo deve avere, per quanto sbiadito possa essere), mentre una casa può benissimo non avere 20, ma 16.

Le caratteristiche della sostanza sono le seguenti:

a.unità: la sostanza deve essere un che di uno: un sasso è una sostanza, un mucchio di sassi no;

b.determinatezza: deve essere un tode tì, un questo qui, deve potersi indicare concretamente: l'umanità non è sostanza (se non in senso secondario: “sostanza seconda”), lo invece è l'uomo, quest'uomo qui (questo è “sostanza prima”, sostanza in senso vero e proprio);

c.indipendenza: appunto in quanto la sostanza sussiste, e non inerisce: un maglione è sostanza, il blu no, perché è sempre blu di qualcosa, di qualche sostanza, ad esempio blu del maglione;

d.attualità: deve essere qualcosa di attuale, di reale: il seme che è seme ora, è sostanza, la pianta che il seme può diventare, sviluppandosi, non è sostanza, finché il seme resta seme.

In base a tali presupposti può essere detto sostanza:

  • non la materia: che non è attuale, né determinata, né indipendente, né davvero una.
  • nemmeno, sotto ogni aspetto, la pura forma, che nelle sostanze corporee non è indipendente, pur essendo determinata, una e attuale
  • ma il sinolo, l'unione di forma e materia, forma e materia in quanto uniti in un essere concreto: questa è la vera sostanza che costituisce il mondo fisico, da noi immediatamente conosciuto.

teologia

la metafisica come scienza del divino

Tra le varie sostanze centrale è la sostanza prima, il Primo Motore Immobile (Πρώτον Κινούν ακίνητον), che, pur invisibile e spirituale, può essere affermato a partire dal divenire che constatiamo nel mondo fisico.

esistenza

Infatti il movimento del mondo è eterno, eterno essendo il tempo (è infatti impensabile che non ci sia un “prima” di ogni ipotetico inizio, e un “dopo” di ogni ipotetica fine); ora il movimento, eterno, deve avere una causa eterna, perché affinché qualcosa divenga occorre qualcosa che faccia divenire, faccia passare dalla potenza all'atto; questa causa deve essere qualcosa che già sia in atto, di più, che sia atto puro.

Infatti non si può risalire all'infinito nella catena di cause del divenire, altrimenti non si spiegherebbe niente: occorre fermarsi (ανάγκη στήναι), fermarsi a una Prima Causa Incausata, a un Πρώτον Κινούν ακίνητον, un Primo Motore (|Movente) Immobile.

Si vede che per Aristotele il divino non è causa dell'essere, ma (solo) del divenire; l'essere del mondo per lui è autosufficiente, a non esserlo è solo il divenire.

Abbiamo visto come per lui il mondo produca meraviglia, per il suo esser-così, ma non stupore, per il suo essere: questo viene come dato per scontato.

essenza

Il Motore Immobile, per muovere tutto deve essere atto puro, ma poiché atto equivale a forma, Egli è forma pura, e poiché la forma è perfezione, Egli è pura, suprema perfezione, quindi è (anche e soprattutto) Intelligenza; in tal senso, ancora, Egli deve essere eternamente felice: come può esserlo? Solo avendo come oggetto della sua conoscenza quanto di più perfetto esista, cioè Sé stesso. Dunque il Motore Immobile contempla eternamente sè stesso, e non può conoscere altro fuori che sè, per non contaminarsi con qualcosa di imperfetto, che infrangerebbe la sua felicità. Perciò Egli non è creatore del mondo, né provvidenza: è il mondo che “va” verso di Lui, come verso il suo Fine, κινεῖ παντα ὡς ἐρώμενον.

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