un ritratto del filosofo

Søren Kierkegaard

la fede come via d'uscita dalla disperazione

🪪 Cenni sulla vita

Søren Kierkegaard nacque a Copenaghen il 5 maggio 1813, ultimo di sette fratelli, dalle seconde nozze del padre (con la domestica). Quando Søren nasce il padre aveva 56 anni e la madre 44; cinque suoi fratelli morirono prima di lui. Di temperamento malinconico, introverso e riflessivo, Kierkegaard ebbe dal suo ambiente familiare un senso di maledizione incombente, e non ebbe una giovinezza spensierata.

La sua fede, molto forte, si ispirò più alla drammaticità del Crocifisso che alla letizia dell'incontro cristiano. Come ricordano dei suoi studiosi, gli furono da subito familiari concetti come il dolore, il peccato, il sangue. Traumatica poi fu per lui la scoperta di una colpa paterna, di cui egli non precisa gli esatti contorni.

Importante nella sua vita fu anche la rottura del fidanzamento con Regina Olsen (da lui descritta con toni angelicati): fu lui a non voler concludere il matrimonio, per motivi, anche qui, non del tutto precisati (vuoi la sua malinconia, vuoi una, variamente interpretata, "spina nella carne", vuoi per potersi dedicare interamente alla sua missione intellettuale, da lui vista con toni fortemente religiosi); ma il suo ricordo continuò potentemente ad agire in lui. Kierkegaard decise di vivere da penitente, dedicandosi tutto al rapporto con Dio e alla sua vocazione di scrittore.

Nel 1841 ascoltò Schelling a Berlino, rimanendone dapprima entusiasta (era lo Schelling della filosofia positiva, con la sua sottolineatura della irriducibilità dell'esistente al razionalizzabile), poi deluso. Visse quindi a Copenhagen, dedito alla sua missione intellettuale, scrivendo (spesso sotto pseudonimo) saggi filosofici e articoli divulgativi, impegnati soprattutto nella sua polemica sulla Cristianità stabilita (vedi qui sotto). Non ci furono grandi eventi esteriori nella sua vita, ma il suo animo sensibile ebbe a soffrire molto dalla polemica appena citata, che lo vide scontrarsi in modo duro con il potente establishment teologico luterano danese. Morì l'11 ottobre del 1855.

📔 Opere principali di Søren Kierkegaard

titolo originale titolo tradotto anno
Om Begrebet IroniSul concetto di ironia1841
Enten-eller Aut-aut1843
Frygt og BævenTimore e tremore1843
Begrebet AngestIl concetto dell'angoscia1844
Philosophiske SmulerBriciole filosofiche1844
Stadier paa Livets Vei Stadi sul cammino della vita1845
Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift til de philosophiske SmulerPostille conclusive non scientifiche alla Briciole filosofiche1846
Sygdommen til DødenLa malattia mortale1849

suoi bersagli polemici:

a) la Cristianità stabilita

Kierkegaard critica il Cristianesimo intiepidito quale era vissuto dalla Chiesa luterana del suo tempo, che aveva dimenticato la portata radicale del Vangelo, il suo essere scandalo e paradosso e ne aveva fatto una comoda religione del buon senso comune, una moralità fatta di massime razionalmente condivisibili. In particolare nel 1846 va segnalata la sua polemica con il periodico Il Corsaro.

b) Hegel

la “verità soggettiva”

Da Hegel lo differenzia il concetto di soggettività della verità, da intendersi non nel senso di soggettivismo, ma come valenza esistenziale del vero: la filosofia non deve rimanere fredda e astratta sintesi sistematica, ma deve illuminare l'esistenza.

«la via della riflessione oggettiva trasforma il soggetto in qualcosa di accidentale, e quindi riduce l'esistenza in qualcosa di indifferente, di evanescente”, “porta dunque al pensiero astratto». «Al suo culmine la soggettività è svanita»

«la passione è precisamente il culmine dell'esistenza (..). Se ci si dimentica di essere un soggetto esistente, la passione se ne va (..), ma il soggetto (..) diviene un'entità fantastica.»

«succede alla maggior parte dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello, e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell'enorme costruzione sistematica.»

Invece la verità che interessa Kierkegaard è quella che fa comprendere se stesso nell'esistenza (Postilla)

se stesso: a) singolo irriducibile all'organismo storico-statale, irriducibile a momento dello sviluppo dialettico dello Spirito; e b) chiamato a scegliere (aut-aut), per il quale dunque la verità non è scindibile dal bene personalmente voluto e attuato (a differenza di Socrate);

Kierkegaard interpreta anche la celebre definizione tomista di verità come adaequatio intellectus ad rem:

Parlando del Giudizio Universale Kierkegaard immagina che su quattro che si presenteranno al Supremo Giudice, tre non cristiani, ma con sofferente ricerca, e uno cristiano, anzi professore universitario, ma animato dalla presuntuosa convinzione di aver spiegato il Cristianesimo, sarà proprio quest'ultimo ad essere nella situazione peggiore.

la dialettica

Hegel, con la sua dialettica dell'et-et, sintetizzava gli opposti: per lui non c'è antitesi che non possa essere riassorbita e riconciliata in una sintesi. Parallelamente tutto il cammino della vita umana, personale e collettiva, si snoda secondo una logica necessaria: senza che vi sia responsabilità della libertà personale.

Kierkegaard invece sottolinea con forza appunto una prospettiva incentrata sulla persona, che si caratterizza per la possibilità di scelta libera, e di scelta tra alternative inconciliabili. Non un et-et, che dispensa dalla scelta un singolo visto come trascinato dall'inesorabile flusso della collettività storica, ma un aut-aut, che impegna la persona nella sua indelegabile, indemandabile libertà personale, in un dramma assolutamente personale, in cui ne va del proprio destino eterno.

Gli stadi dell'esistenza (in Aut-aut)

La filosofia deve interessarsi essenzialmente dell'esistenza, e l'esistenza può, in ultima analisi, avere tre forme, o stadi: estetico, etico e religioso. La tripartizione kierkegaardiana può trovare delle analogie, oltre che con il ritmo ternario che Hegel aveva ripreso da una tradizione medioevale, con la teoria dei tre ordini di Pascal: la materia (estetica), lo spirito(etica), la carità (religiosità). Tra uno stadio e l'altro il passaggio non è necessario automatismo, ma salto, effettuabile solo dalla libertà del singolo.

1. Lo stadio estetico

ossia la tesi, la pura particolarità, una pura sensibilità

L'uomo che vive in questa forma, l'esteta, rifiuta tutto ciò che è impegnativo, ripetitivo, serio:

«chi vive esteticamente vive sempre solo nel momento»

L'esteta ricerca sensazioni sempre nuove, idolatrando l'istante fuggevole che non affondi radici nel passato e non costruisca impegnativamente il futuro. Per questo "la sua vita si disfa in una serie incoerente di episodi" senza senso ultimo; analogamente egli rifiuta ogni legame stabile, tanto a livello affettivo, quanto a livello sociale.

Figura-simbolo della vita estetica è il Don Giovanni, il seduttore, che non si lega mai ad una donna, ma passa senza sosta da una donna all'altra, nessuna amando mai veramente, senza vera storia e senza prospettiva.

L'esteta in tal modo fugge continuamente da sé stesso, distraendosi nell'esteriorità (in una esteriorità alienante, si potrebbe dire), ed è contrassegnato dalla noia (come dice Kierkegaard in Aut-aut), ed è in fondo, lo sappia o no, disperato.

2. Lo stadio etico

ossia l'antitesi, la pura universalità, una ragione autosufficiente

È caratterizzato da stabilità, fedeltà, ripetitività: figura-simbolo ne è il matrimonio; in questo stadio l'uomo si sottopone a una forma, a una regola, a un impegno costante nel tempo, sceglie insomma l'universale. Ma non si tratta ancora dello stadio che vede la realizzazione piena dell'umano.
Un uomo che voglia essere davvero serio, e non rigoristicamente e farisaicamente serioso, deve infatti riconoscere che nella sua vita c'è il peccato e ci sono quella angosce e quella disperazione che la semplice razionalità e l'osservanza pur meticolosa di regole universali non bastano a sanare; anzi in questo stadio l'uomo non riesce a guardare in faccia davvero la Medusa terribile del suo proprio male. Per raggiungere la verità di sé e della propria vita bisogna andare oltre: solo se amato da un Altro, che sia Infinita Misericordia l'uomo può guardare davvero a sé come a un "io". Perciò il passo ultimo della vita etica è il pentimento, il porsi di fronte al Dio personale che si rivela in Cristo, ma questo lo spinge a trapassare nello stadio religioso.

3. Lo stadio religioso

Ossia la sintesi di universale e particolare, nella fede

il sacrificio di Isacco
Abramo disposto a sacrificare Isacco: simbolo dello stadio religioso

Soltanto in questo stadio l'uomo affronta fino in fondo sé stesso, quell'io di cui finora aveva censurato quegli aspetti che non riusciva a capire e a risolvere, ossia l'angoscia e la disperazione, e decide pertanto di abbandonarsi fino in fondo a una misura che supera la finitezza razionalizzabile, al Dio della rivelazione cristiana, che chiede all'uomo il salto (non irrazionale, ma certamente soprarazionale) della fede. Figura-simbolo di questo stadio è Abramo, colui che si è a tal punto abbandonato a una misura più grande della sua, da accettare di sacrificare il suo amato figlio unigenito, Isacco.

Ma vediamo perché la fede non è irrazionale, bensì profondamente rispondente alla realtà dell'esistenza umana. Per capire questo bisogna capire come l'angoscia e la disperazione non sono, per Kierkegaard, stati d'animo eccezionali e propri di certi temperamenti al limite della patologia, ma sono intrinseci strutturalmente al modo con cui ogni soggetto umano guarda a sé e al mondo.

Angoscia e disperazione

tratti ineliminabili dell'esistenza

L'angoscia

L'angoscia, trattata ne Il concetto dell'angoscia, è strutturale in ogni essere umano, in quanto radicata nella sospensione della conoscenza umana (riferita essenzialmente al futuro) tra il sapere del puro immediato (tipicamente animale) e il sapere della totalità concreta (angelico-divino): non è angosciato chi del futuro sa tutto (Dio) o chi non ne sa nulla (l'animale, che vive esaurientemente nell'istante presente). Il suo oggetto è l'indeterminatezza del futuro, il futuro in quanto indeterminato, e in tal senso l'angoscia, il cui oggetto è appunto l'indeterminato, differisce dalla paura, che è sempre paura di un determinato. L'angoscia si riferisce tanto a ciò che potrebbe in futuro accadere fuori di noi, quanto a ciò che noi stessi potremmo fare nel futuro. Essa è, così, intrecciata alla dimensione della possibilità e del peccato, riferiti al futuro. Il passato ci può angosciare solo in quanto si può ripresentare come possibile futuro, come ripetizione possibile, altrimenti un (nostro) passato negativo genererebbe solo pentimento.

Il vertice dell'angoscia in Cristo non fu espresso dalla frase, pronunciata sulla Croce, Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?, allorché stava accadendo qualcosa di terribile, ma dalla frase, rivolta a Giuda quello che devi fare, fallo presto, indicativa di una situazione di angosciosa attesa di qualcosa di terribile che poteva accadere, ma non era ancora attuale.

La disperazione

Se l'angoscia è relativa a ciò che potrebbe accadere, e di cui sappiamo/non-sappiamo, nell'ambito della oggettività dei rapporti intersoggettivi, la disperazione, trattato ne La malattia mortale, è riferita alla nostra stessa soggettività. Essa significa che l'uomo non riesce ad accettare sé stesso: dispera di essere sé stesso. Essere sé stesso infatti non è automatico, dato che la nostra natura è complessa, è sintesi di fattori tra loro in dialettica, la finitezza e l'infinitezza, la necessità e la possibilità. Normalmente gli uomini sono disperati, perché rinunciano ad essere integralmente sé stessi, rinunciano al loro vero io, e puntano solo su quel fattore del proprio io che meglio riescono a controllare: chi punta sulla finitezza (/necessità) e chi sulla infinitezza (/possibilità), gli uni buttandosi nella sola materialità, gli altri in uno spiritualismo disincarnato e puramente intellettuale/sentimentale.

La fede come soluzione al problema dell'esistenza

La sua vera soluzione è solo il Cristianesimo, che permette all'uomo di guardare alla verità, complessa, di sé.

Solo se è vero il Cristianesimo infatti posso superare l'angoscia, perché nessun evento futuro, per quanto negativo, mi potrà sottrarre quel Bene che più di tutto conta, cioè l'Eterno, che è Signore della realtà, e dunque anche della contingenza, e la amicizia col Quale dipende solo dall'atto di accettazione della mia libertà, che nessun fatto esterno futuro potrebbe impedire.

E solo se è vero il Cristianesimo posso guardare a me stesso superando la disperazione, in quanto la mia struttura paradossale non è priva di senso (non sono un mostro illogico), ma è carica di senso: perché si va all'Infinito attraverso il finito; perciò anche il finito, la contingenza, il corporeo, è importante, ma come luogo dove si attua e verifica l'Infinito.

Ma come credere? Il Cristianesimo ci si presenta come problema ineludibile: quell'Uomo, Cristo, pretende di essere la mia felicità, la risposta al mio bisogno più urgente e fondamentale; perciò non posso ignorarlo, devo sapere se dice il vero o no.

Kierkegaard insiste nel presentare la fede come scandalo e paradosso: è un salto reale oltre la semplice razionalità.

Si cresce nella verità, e nella verifica della fede, rischiando esistenzialmente per essa, non pretendendo di conservarla, per così dire, in freezer, come puro deposito intellettuale; e qui Kierkegaard critica ogni forma di intellettualismo, ultimamente riconducibile a quello socratico, per cui basta sapere per volere. Invece il volere (quindi il rischiare nella vita, con scelte concrete) è importante per tener vivo il sapere, che altrimenti resterebbe come un che di disseccato e sterile, svuotato di autentico contenuto.

interpretazioni e eredità

L'interesse per Kierkegaard, dapprima limitato all'area scandinava, si sviluppò subito dopo la Prima Guerra mondiale, ad esempio nella cultura filosofica di indirizzo esistenzialista (come Karl Jaspers), che a lui si ispirò, e nella "teologia dialettica".

Lucacs se ne interessò: dapprima valorizzandolo (ne L'anima e le forme, 1911), poi (ne La distruzione della ragione, 1954) criticando in lui un irrazionalismo di stampo borghese-reazionario.

Karl Löwith (Da Hegel a Nietzsche) vide in lui al contempo la crisi del mondo cristiano-borghese, e il ritorno al Cristianesimo primitivo.

Jean Wahl (Etudes kierkegaardiennes, Parigi 1938) può essere ricordato per il suo bilancio sull'influenza di Kierkegaard nella cultura francese.

In Italia Kierkegaard è stato studiato con attenzione, tra gli altri, da Enzo Paci e da Luigi Pareyson (Esistenza e persona, 1950; Studi sull'esistenzialismo, 1971); un confronto positivo con la tradizione tomista è stato sviluppato da Cornelio Fabro.

Segnaliamo, tra le altre, l'interpretazione di Abbagnano, insigne studioso, da cui dobbiamo in questo caso dissentire. Inaccettabile ci appare la sua lettura di Kierkegaard come di uno che per sondare tutte le possibilità avrebbe rinunciato a scegliere, optando per una “condizione eccezionale di indecisione e di instabilità”, per cui “il centro del suo io è di non avere un io” (3°vol. Filosofi e Filosofie nella storia, Paravia, Torino 1986, 165); secondo Abbagnano la sua scelta di nascondersi dietro pseudonimi starebbe ad indicare il suo non impegno a scegliere tra le diverse possibilità.

Ma in Kierkegaard troviamo un continuo invito alla scelta, da lui vista come la cosa più fondamentale della vita. Che poi il suo temperamento fosse sensibile e malinconico, e in qualche modo poco portato ad adottare decisioni nette nella propria vita, è altra questione.

📖 Testi on-line

📚 Bibliografia essenziale

Per un giudizio

Con De Lubac si può vedere in Kierkegaard un antidoto alla pretesa panlogistica hegeliana, benché nella sua critica contro il panlogismo, egli si sia spinto sino a negare alla ragione una capacità di giudizio certo e stabile sulla realtà. È possibile perciò vedere in Kierkegaard un eccesso di anti-intellettualismo.