la filosofia araba

AlFarabi

Morì nel 950, avendo vissuto e insegnato a Bagdad. Si interessò al pensiero di Aristotele, ma fu influenzato anche dal neoplatonismo. Fu un Sufi, personalmente credente nella Onnipotenza di un Dio Unico. Sottolineò la contingenza delle realtà create, tematizzando la distinzione tra essenza ed esistenza (un problema che poi sarebbe stato ripreso da molti). Ma sostenne pure una concezione emanazionistica, per cui Dio crea mediante Intelligenze superiori, puramente spirituali, che più Gli sono prossime.

L'intelletto attivo, di cui parlava Aristotele, fu da lui identificato con una di queste Intelligenze, l'Intelligenza cosmica.

Avicenna

vita

Con Averroè è uno dei più importanti filosofi arabi. Come Averroè, pur non rifiutando esplicitamente la credenza islamica, le sue tesi filosofiche sono, in punti importanti, incompatibili con l'ortodossia maomettana.
Persiano, nato nel 980, Avicenna (latinizzazione di Ibn Sina) fu educato secondo la cultura islamica e la lingua araba fu quella in cui scrisse le sue opere.
Ingegno precoce, si nutrì di una vasta cultura, come lui stesso ci racconta nella sua autobiografia, dalla medicina (che fu poi a lungo la sua professione) alla letteratura, dal diritto alla scienza (geometria e fisica). Curiosamente egli narra di aver letto la Metafisica di Aristotele per quaranta volte senza capirla: decisiva fu la lettura di un trattato di Al Farabi, che gliene schiuse il senso.

A 18 anni - ricorda Gilson- egli sapeva tutto ciò che avrebbe dovuto sapere; le sue conoscenze erano cosi estese che esse potevano approfondirsi, ma non rinnovarsi. In seguito egli condusse una vita agitata e talvolta romanzesca in cui i piaceri occupavano una grande parte, cosi piena di avvenimenti e ingombra di cariche pubbliche che egli redigeva le sue opere nel tempo libero che la notte gli concedeva. Avicenna scrisse più di cento opere che trattano dei più diversi argomenti, e morì nel 1037 all'età di 58 anni.

pensiero

Il riferimento maggiore della filosofia avicenniana è il pensiero platonico, seppur con qualche influsso aristotelico.

Significativo ad esempio è il fatto che per lui l'essere sia un'idea necessariamente presente alla mente umana, benché, di norma (nel senso che è così per la quasi totalità degli esseri umani), essa sia acquisita tramite l'esperienza. Ma se un uomo fosse completamente privo di percezioni sensibili, egli avrebbe comunque l'idea dell'essere, perché percepirebbe la propria esistenza.

Ma la tesi più importante della filosofia avicenniana è l'idea di necessità: tutti gli enti, per lui, sono necessari, e necessaria è la creazione. Appunto questa è la tesi che lo mette in rotta di collisione con l'ortodossia islamica, per la quale la creazione è un atto libero di Dio. Per Avicenna invece Dio, che è il Bene assoluto, non può non irraggiarsi attorno a Sé, creando altri esseri, finiti.

Ne segue che Dio crea ab aeterno, e dunque che il mondo finito è eterno esso stesso.

Altra tesi implicata è la concezione del rapporto tra essenza ed esistenza, che venne dibattuta spesso in Occidente nel XIII secolo. Per Avicenna l'esistenza è sì distinta dall'essenza, ma come un suo accidente. Come capita, accidit , che una cosa sia di quel colore, di quella forma, di quel peso, in quel luogo, in quel momento, così capita che esista. L'esistenza viene così posta sullo stesso piano di qualità, quantità, relazione, spazio, tempo. Ben diversa sarà la teoria dell'esistenza di Tommaso d'Aquino, che vedrà nell'essere non certo un accidente, qualcosa di secondario, ma la perfezione suprema, il perfectissimum omnium.

Dio non crea immediatamente il mondo materiale: anzitutto da Lui emanano le prime Dieci Intelligenze, esseri puramente spirituali. L'ultima e inferiore è quella che egli chiama il dator formarum, il "datore di forme", che infonde nella materia la forma, ed esercita anche la funzione di Intelletto Agente, quella capacità di cui Aristotele aveva parlato, per cui il pensiero umano può astrarre l'intelligibilità dal dato sensibile, sollevandosi al di sopra del qui-e-ora.

Anche questa teoria pone Avicenna in contrasto col Corano, perché, se coerentemente affermata, implica la negazione dell'immortalità personale (infatti se ogni individuo umano non ha un suo proprio intelletto agente, ma si avvale di una inteletto agente separato, comune a tutti, non ha in sè un fattore superiore alla caducità della materia).

ortodosso?

Tuttavia in entrambi i casi Avicenna negò di volersi mettere in contrapposizione all'Islam, e sostenne, poco coerentemente con le sue tesi filosofiche, tanto l'immortalità personale quanto la distinzione tra Dio e il mondo creato. Peraltro tali due ammissioni furono quanto meno ambigue: l'immortalità in effetti è un ritorno all'Intelligenza universale, ed è concepita in termini di conoscenza intellettuale; e la distinzione tra Dio e il mondo è affidata alla distinzione, piuttosto fragile, tra essenza ed esistenza.

testi

L'universo avicenniano è cosi composto di essenze, o nature, che formano l'oggetto proprio della conoscenza metafisica. Presa in sé l'essenza contiene tutto ciò che la sua definizione contiene e niente altro. Ogni individuo è singolare di pieno diritto; la scienza poggia sugli individui. Ogni idea generale è di pieno diritto universale: la logica poggia sugli universali. L'essenza, o natura, è indifferente alla singolarità come all'universalità. La "cavallinità", ad esempio, e l'essenza del cavallo, indipendentemente dal sapere ciò che bisogna aggiungervi perché essa diventi sia l'idea generale di cavallo, sia un cavallo particolare. Come dice Avicenna in una formula spesso citata nel Medioevo: "Equinitas est equinitas tantum". Lo stesso vale per le altre essenze e l'insleme di queste realtà astratte, ciascuna delle quali impone a pensiero la necessità del suo contenuto, è l'oggetto stesso della metafisica. (Gilson, La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia, Firenza, p.425)

A questo titolo egli (Dio) possiede l'esistenza in virtù della sua sola essenza, o come anche si dice, in lui essenza ed esistenza sono una cosa sola. è per questo, d'altra parte, che Dio è indefinibile ed ineffabile. Egli è, ma se si chiede che cosa è non c'è risposta, perché in lui non c'è un quid al quale possa rivolgersi la domanda quid sit. Il caso di Dio è unico. Tutto ciò che non è che possibile ha invece un'essenza, e poiché, per definizione, questa essenza non ha in sé la ragione della sua esistenza, bisogna dire che l'esistenza di ogni possibile è, in certo modo, un accompagnamento accidentale della sua essenza. Notiamo bene che questo accidente può, infatti, accompagnarla necessariamente in virtù della necessità della sua causa, ma non ne risulta necessariamente di diritto, perché non deriva dall'essenza come tale. C'è quindi distinzione di essenza e di esistenza in tutto ciò che non è Dio. (Gilson, ibi, p.427)

Algazali

Nato nel 1058, morto nel 1111. Tenne lezioni a Bagdad, e contrastò Al-Farabi e Avicenna in nome dell'ortodossia maomettana. Significativo è il titolo di una sua opera: Destructio philosophorum.

In un'altra opera, Rinnovamento delle scienze religiose sostenne, contro Avicenna, la creazione del mondo ex nihilo e nel tempo. Nella sua polemica antirazionalistica sostenne anche la causalità divina come unica causalità (ossia fu occasionalista): non è una realtà creata a causarne un'altra, ma Dio causa tutto, immediatamente.

Questo afflato mistico era legato alla personale spiritualità di Algazali, che era un Sufi, e che a un certo punto della sua vita, abbandonata Bagdad, si ritirò a vivere in modo ascetico in Siria. Non disdegnò, in tal senso, di nutrirsi anche di idee esterne all'islam, come l'ebraismo e il cristianesimo.

Averroè

Nacque a Cordova nel 1126. Il contesto del califfato occidentale permetteva maggiore libertà di espressione. Oltre che di filosofia Averroè (latinizzazione di Ibn Rushd), studiò diritto e medicina, e negli ultimi anni della sua vita (dall'82) fu medico del Califfo di Cordova, finchè cadde in disgrazia e dovette morire in esilio, in Marocco, nel 1198.

E' considerato il maggior filosofo arabo. Se in Avicenna si trova un tentativo di sintesi tra platonismo e aristotelismo, in lui prevale nettamente il riferimento allo Stagirita, di cui fu detto (ad esempio da Tommaso d'Aquino) il Commentatore per antonomasia; e se in Avicenna le tensioni con l'ortodossia islamica venivano coperte da un formale ossequio, in lui viene messo esplicitamente a tema il rapporto tra ricerca filosofica e credenza religiosa, con la teoria divenuta celebre sotto il nome di doppia verità.

1. fede-ragione: la doppia verità

La soluzione proposta da Averroe è che la verità della ragione può contraddire quella della fede, senza che ciò impedisca ci considerarle vere entrambe.

Secondo Copleston (Storia della filosofia, Paideia, Brescia, vol. II, p. 260) ciò non significa però una totale equivalenza di due tesi contraddittorie, bensì che la credenza religiosa comprende allegoricamente e imperfettamente, ciò che la filosofia comprende chiaramente. Secondo lo studioso inglese insomma Averroè avrebbe anticipato Hegel, seguendo la gnosi.

Peraltro, se nella sostanza questa interpretazione è vera, la teoria della doppia verità venne formulata in modo molto più sfumato che in Hegel, se non altro per prudenza, onde evitare condanne da parte delle autorità religiose maomettane.

2. eternità e necessità del mondo

Certamente per lui la filosofia aveva un primato sulla teologia, e Aristotele andava seguito anche dove contraddiceva l'insegnamento del Corano. Ad esempio nella tesi della eternità del mondo. Questa tesi contrasta con la dottrina coranica (come del resto anche con l'insegnamento biblico), che sostiene che il mondo non è sempre esistito, ma ciò non impedì ad Averroè di sostenerla. Peraltro egli non nega che sia Dio a creare il mondo, solo che lo crea dall'eternità, e quindi eterno è il mondo che è oggetto di un atto eterno.

Come Avicenna anche Averroè sostiene che l'atto creatore non è libero, ma necessario. E anche questa è una tesi contrastante con la teologia islamica, benchè trovi in essa qualche presupposto.

3. unicità dell'intelletto agente

Un'altra tesi su cui Averroè preferisce seguire Aristotele piuttosto che il Corano è la negazione dell'immortalità personale. In effetti per lui uno solo è l'intelletto agente, comune per tutti gli individui umani, nei quali perciò non esiste un fattore immateriale. Dunque l'ìindividuo è mortale, quando muore il corpo, muore tutto della persona singola. Resta solo quella realtà superindividuale che è l'Intelletto Agente.

Così la vita ultraterrena è radicalmente negata.

Per un giudizio

Ci sembra significativo che la filosofia araba non riesca ad effettuare una credibile sintesi tra fede e ragione, oscillando tra il prevalente razionalismo di Avicenna e Averroè, e il misticismo di Alfarabi e Algazali (nemmeno questi ultimi per la verità privo di elementi eterodossi). In effetti si può parlare di filosofia araba, ma non di filosofia mussulmana. Avendo una concezione di Dio come abissalmente distante dall'uomo, la conciliazione tra ragione filosofica e credenza religiosa diventa più che problematica.

Da notare che proprio in questa difficoltà di rapporto tra credenza maomettana e riflessione razionale sta una delle princiali radici culturali della difficoltà dello stesso mondo islamico a rapportarsi dialogicamente con altre culture e con la storicità.