una scena dal Codex Rossanensis

De Lubac e il soprannaturale

pubblicato su da De Lubac, Cristianesimo e modernità, cit., cap.3.

introduzione

Il punto qui è sapere se il cristianesimo è una aggiunta irrilevante alla vita “normale”, profana, come tendeva a far credere l'impostazione neotomista, o è la risposta a un bisogno centrale dell'uomo, come de Lubac ha contribuito a far nuovamente riconoscere.

I. la posta in gioco, a livello esistenziale-storico

«In generale, si trattava di impostare il problema del rapporto natura/soprannaturale: il neotomismo propendeva per una netta distinzione tra i due piani, al punto da rischiare una vera e propria separazione, la Nouvelle Théologie lottava invece per ricostruire una visione unitaria del reale, incentrata sul soprannaturale.

a) A livello culturale la prima impostazione concepiva il sapere come qualcosa di essenzialmente oggettivo e asetticamente imparziale, retto unicamente dalle leggi di una equilibrata e rasserenante razionalità; la stessa Scienza Sacra, la teologia, come abbiamo visto, doveva in questa prospettiva essere plasmata secondo una architettura logica e procedere con una andatura sillogisticamente serrata. Laddove i nouveaux concepivano una unitarietà della cultura, informata dalla fede, che avrebbe dovuto investire e riplasmare, più o meno direttamente ed esplicitamente, ogni ambito del sapere, in particolare il suo "vertice" filosofico-teologico. Era perciò giudicata impossibile una neutralità della cultura.

b) A livello morale la tendenza del neotomismo era anzitutto quella di accentuare l'importanza dei valori morali naturali rispetto allo specifico richiamo cristiano, sottolineando in secondo luogo la dimensione dello sforzo umano, dell'impegno della volontà in un progetto di rigore morale, rispetto alla considerazione della grazia, che precede e sostiene l'umana risposta positiva. De Lubac stesso delinea i rischi di una impostazione naturalistica, a livello morale. In una "economia puramente naturale (...) tutta la vita morale dipenderebbe esclusivamente dalle forze innate dell'uomo, sviluppate in una rigorosa autonomia press'a poco come intendeva Aristotele".

La Nouvelle Théologie operava di contro per il ritorno a una percezione della vita morale più conforme al dato scritturale e agli inizi cristiani, polarizzati dalla sintetica centralità di Cristo (che, certamente, compie e non toglie "neppure uno iota" della analitica precettività della legge), piuttosto che da singoli precetti.

c) A livello politico la posta in gioco era più complessa. Vogliamo dire che lo "schieramento" neotomista, relativamente compatto circa le questioni speculative o morali, era molto più articolato e composito, come del resto è logico che sia, in rapporto ai concreti contenuti da perseguire come obiettivi specifici, andando da posizioni "di destra", ad altre "progressiste" (come fu ritenuta, a suo tempo, la filosofia politica del Maritain). Quello che comunque costituiva il terreno comune era la tendenza a emarginare il riferimento alla fede in Cristo dall'azione politica: quest'ultima era riferibile piuttosto alla moralità, alle norme morali naturali. Il problema era, di conseguenza, creare una società pienamente umana (= a misura della natura umana), in cui il Cristianesimo godesse delle stesse chances concesse a qualsiasi altra weltanschaung che accettasse alcuni requisiti minimi. Più consono alla mentalità della nuova impostazione era invece, dentro una percezione più drammatica e concreta dello stato effettivo dell'uomo da un lato, e del valore prezioso e non dissipabile del Cristianesimo dall'altro, un'azione politica che puntasse più sulla lievitazione cristiana della società che su strutture istituzionali presupposte asettiche, miranti ad un "livello naturale minimo".

II. Il problema, in termini tecnici

"De Lubac sviluppa il suo pensiero al riguardo soprattutto in Surnaturel (1946) e ne Le Mystère du surnaturel (1965). Non affrontiamo per esteso la questione della possibile evoluzione del pensiero di de Lubac, che non può essere negata, ma va ricondotta alla precisazione di aspetti secondari, senza intaccare la continuità e la coerenza complessiva del suo asse portante. Anzi, il testo del '65 riprende letteralmente molti passi di quello del '46. Vedremo parlando della tesi della possibilità della natura pura dove si debba parlare di evoluzione. Ma procediamo ora sistematicamente, vedendo anzitutto l'attualità del problema, poi le coordinate del rapporto natura /soprannaturale in termini generali e in positivo, per addentrarci infine nel vivo della disputa specifica che ha visto contrapporre de Lubac ai maggiori neotomisti suoi contemporanei.

(…)

II. 1) Coordinate generali

Un'importante sintesi delle coordinate lubachiane sul rapporto natura/soprannaturale ci è dato ne Le Mystère du surnaturel. Troviamo in essa i due poli, i due "capi della catena" che occorre comporre in sintesi, secondo il dettame di Calcedonia: ἀσυγχύτως, ἀτρέπτως, ἀδιαιρέτως, ἀχωρίστως, senza confusione né separazione, ossia la distinzione e l'unità tra natura e soprannaturale. A questo proposito de Lubac, come abbiamo sopra ricordato, colloca la sua posizione teologica a cavallo, per così dire, tra S.Tommaso, che accentua il primo polo, quello della distinzione tra i due ordini, e perciò della piena consistenza del livello naturale, e S.Agostino, che insiste molto sulla centralità del soprannaturale, e sulla non-autosufficienza della natura.

a. Da un lato occorre stabilire l'irriducibile differenza tra i due livelli, l'ordine naturale, della creazione, e quello soprannaturale, della Iniziativa gratuita di Dio di redimerci dal peccato ed elevarci alla partecipazione alla Sua vita. Questo è il polo che il neotomismo, ma in parte lo stesso Tommaso, sottolineava, secondo de Lubac, con insistenza un po' unilaterale, e che viceversa de Lubac è stato accusato di trascurare. In realtà egli ritiene che su questo punto S.Agostino debba essere corretto, in direzione di una maggior consistenza dell'ambito naturale: non solo de Lubac critica l'interpretazione soprannaturalistica di S.Agostino (data da Baio e Giansenio), ma ritiene che nemmeno se interpretato in modo esatto il suo pensiero possa essere accettato come completo ed equilibrato. è vero infatti che l'Ipponate distingue tra i due ordini, e non misconosce perciò una certa autonomia della natura e delle cause seconde , ma la sua tendenza è quella di risalire immediatamente alla Causa Prima, al Fine Ultimo. S.Agostino, come disse S.Alberto Magno, non bene scivit naturas: il suo punto di vista insomma è troppo esclusivamente quello del teologo, e troppo poco quello del filosofo. E de Lubac ritiene ciò inadeguato, insufficiente. Occorre secondo lui distinguere con più precisione tra natura e grazia, tra umano e divino.

b. D'altro lato la distinzione non deve diventare separazione: l'ordine della natura trova il suo Centro e il suo Senso definitivo solo nel soprannaturale, che lo trascende, certo, ma non è perciò qualcosa di accessorio. Su questo punto è S.Tommaso a non aver insistito abbastanza : la sua attenzione si sofferma un po' troppo, per de Lubac, sul livello naturale, tanto che nel soprannaturale egli rischia di non vedere che un coronamento, tutto sommato poco incidente, della natura. Nel noto adagio tomista, gratia naturam perficit, de Lubac vede soprattutto il termine naturam, che la grazia deve "supporre", mentre il perficit è inteso come un suggello ultimo. (…)

II. 2) I danni del separatismo naturalista

Anche se in teoria i fautori della natura pura dichiarano tale situazione ipotetica, o comunque non più pienamente attuale dopo l'evento di Cristo, di fatto essa ha legittimato il diffondersi della convinzione che la natura pura sia qualcosa di effettivo, sia la nostra reale situazione. Non è un caso, secondo de Lubac, e non ci sentiamo di dargli torto, che l'affermarsi del sistema della natura pura abbia coinciso, nei secoli moderni, con una prassi sempre più naturalistica, che ha relegato il soprannaturale nell'ambito, poco credibile, del "meraviglioso", del "miracoloso", se non del "bizzarro": di qualcosa, in ogni caso, che non c'entra con la vita quotidiana, che non la riplasma trasfigurandola dal di dentro. Il risultato è un tipo umano tendenzialmente autosufficiente: "si pone per ipotesi una creatura che non ha con Dio alcuna relazione d'amore. Si pone una beatitudine che la creatura esige (exige) e che Dio le deve. Dal mondo "puramente naturale" di quest'essere (habité par cet être) è bandita ogni idea di gratuità".

Si viene creando così, nei secoli postmedioevali dominati dalla natura pura, una naturalizzazione dello stesso soprannaturale, ridotto ad ombra, poco credibile e poco interessante, perché la natura ha già in sé quanto le basta, e l'ordine naturale è l'unica realtà davvero solida e affidabile.

II. 3) L'uomo come desiderio di Dio

Vediamo ora a)come de Lubac concepisca il rapporto natura/soprannaturale e b)come si difenda dalle accuse che gli sono state rivolte in proposito.

a) Per de Lubac la natura umana ha sì una sua consistenza autonoma, ma Dio, che l'ha creata prevedendo di destinarla al soprannaturale, ha immesso nel suo cuore il desiderio di qualcosa che essa non può prevedere, né possedere, né raggiungere con le sue sole forze, ma che solo l'iniziativa effettiva e storica di Dio può donare in modo saziante, cioè appunto il soprannaturale.

Dio non era obbligato a creare: lo ha di fatto voluto. Non era obbligato ha creare questo particolare mondo e l'uomo: lo ha di fatto voluto. Non era obbligato a chiamare l'uomo ad una comunione intima con Sé, mediante la grazia soprannaturale: lo ha di fatto voluto. Ora l'uomo tende nella direzione a cui lo inclina il desiderio. Se l'uomo non avesse il desiderio di un qualcosa, non potrebbe desiderare quel qualcosa, e ne considererebbe la mancanza come del tutto trascurabile. Se la creatura spirituale non avesse avuto che un fine naturale, non avrebbe avuto che il desiderio di tale fine puramente naturale, e non avrebbe avuto di che altro desiderare: il finito le sarebbe bastato, l'avrebbe saziata. Questo sarebbe stato possibile, lo abbiamo già detto. Ma così non è stato: così di fatto non è.

Il fine che Dio ha liberamente scelto per le sue creature intelligenti è soprannaturale. A quale condizione allora il soprannaturale poteva interessare la creatura intelligente? A condizione che in essa ve ne fosse il desiderio: è tanto semplice! Se l'uomo non avesse in sé che il desiderio del finito, del finito si appagherebbe, e non saprebbe che farsene dell'Infinito.

Ecco allora la tesi di de Lubac: dato che Dio ha di fatto voluto elevare l'uomo a Sé, all'Infinito, per spingere l'uomo a non accontentarsi del finito, gli ha posto nel cuore il desiderio dell'Infinito, il desiderium naturale videndi Deum. Il desiderio dell'Infinito non obbliga Dio, se non a ciò che Lui stesso ha scelto. Non è il desiderio di Infinito ad obbligare l'Infinito a concederci Sé stesso (quasi fosse un Fato, più forte dello stesso Zeus), ma è la scelta dell'Infinito di concedersi a noi, che gli ha fatto decidere di farsi desiderare. Il primum non è il mezzo (=il desiderio), ma il Fine.

L'uomo ha dunque in sé il desiderio di qualcosa, che supera la sua natura, ha in sé il desiderium naturale videndi Deum; che non è qualcosa di estrinseco al mio io, alla mia reale umanità, alla mia natura: "Questo desiderio non è in me un 'accidente' qualunque. Non mi proviene da qualche particolarità, forse modificabile, del mio essere individuale, o da qualche contingenza storica, con effetti più o meno transitori." E' invece inscritto nel più profondo costitutivo della mia struttura umana, e di essa anzi è il centro e il cuore. Tutto l'umano desiderare è ultimamente mosso da questa aspirazione unitaria, da questa sotterranea, ma impetuosa spinta verso la felicità piena e infinita. A tal punto che la frustrazione di questo desiderio non ci lascerebbe affatto indifferenti, ma costituirebbe la principale fonte della nostra infelicità , del nostro tormento (l'inferno è 'luogo' di sofferenza appunto per la mancanza di quella visione di Dio, che è il cuore della felicità umana, ben più che per qualsivoglia forma di sofferenza particolare). Ne consegue che la natura umana è al tempo stesso, e paradossalmente, in sé definita, ma non in sé chiusa e compiuta; ha una struttura ontologica determinata, che tuttavia la protende ad aprirsi ad un compimento pieno oltre sé stessa.

(…).

III. Appunti per un giudizio

Affinità con Rahner?

La teologia del soprannaturale di de Lubac è stata talora accostata, soprattutto da parte neotomista, alle tesi di Karl Rahner. A nostro avviso questo accostamento non coglie appieno nel segno, e cercheremo ora di spiegare brevemente perché. Ricordiamo sinteticamente i punti salienti della teoria di Rahner: tutti gli uomini sono orientati da una struttura trascendentale, che precede la molteplicità delle esperienze particolari, e a cui appartiene anche una originaria "autocomunicazione di Dio", che è propriamente qualcosa di soprannaturale. Per il teologo di Friburgo la presenza di tale "esistenziale soprannaturale", che è in qualche modo un "a priori", un trascendentale in senso kantiano, è la condizione perché l'uomo possa accogliere il soprannaturale esplicitamente rivelato e comunicato da Cristo (e dalla Chiesa). (…)

L'intento di Rahner è quello, per sé lodevole, di avvicinare Dio e l'uomo (d'oggi), mostrando come la Trascendenza non sia nemica dell'immanenza, ma ne sia l'imprescindibile chiave interpretativa. Ci si potrebbe chiedere se egli non abbia corso il rischio di sfumare troppo i confini tra i due ambiti. Ma noi qui dobbiamo limitarci a confrontare la sua concezione, testé riassunta per sommi capi, con quella di de Lubac.

Certo anche de Lubac ha combattuto l'estrinsecismo che separava natura e soprannaturale , e anche de Lubac si sforza di conseguenza di mostrare come tra umano e divino non ci sia estraneità o ostilità. La differenza però non può non apparire evidente. Per de Lubac è la natura umana (questa nostra storica natura) a desiderare il soprannaturale, Dio nella Sua stessa divinità. Per Rahner la natura in quanto tale abbisogna di un aiuto ulteriore per potersi protendere verso l'Infinito, anche se poi tale aiuto viene in qualche modo a diventarle tanto intrinseco da appartenerle. Ne segue che anteriormente all'incontro con Cristo per de Lubac il soprannaturale è semplicemente desiderato dalla natura umana, dal cuore dell'uomo, laddove per Rahner esso è (in qualche modo) posseduto. E desiderio e possesso non ci sembrano la stessa cosa! Se con de Lubac si afferma che il soprannaturale è semplicemente desiderato allora l'incontro storico con la visibilità di Cristo sarà qualcosa di insostituibile, conserverà un'importanza decisiva; se invece con Rahner si ritiene che il soprannaturale sia già intrinseco all'uomo, ad ogni uomo, allora diventa secondario l'incontro con una oggettività esterna che sia, a titolo del tutto speciale, teofanica e, per così dire, teopartecipativa. (…)

La sintesi di von Balthasar

Amico e, per certi aspetti, discepolo di de Lubac, von Balthasar ha elaborato una ampia e vigorosa sintesi teologica, in sostanziale sintonia col teologo di Cambrai. Se dal francese de Lubac lo separa una forma di pensiero sistematica, tipicamente tedesca, che invece lo accumuna al Rahner, i contenuti essenziali ci sembrano convergere in un ottimo accordo nell'affermazione della centralità del soprannaturale, inteso in senso storico-specifico e non generico-trascendentale.

(…) non si può non notare che la consonanza tra i due teologi è assolutamente superiore alle possibili, e inevitabili, divergenze di accento. È lo stesso von Balthasar a evidenziarlo: merito di de Lubac per il teologo di Basilea, l'abbiamo ricordato, è aver impostato una definizione della natura in riferimento al soprannaturale, capovolgendo l'impostazione moderna, che definiva la grazia in rapporto alla natura.

Una conferma che tra la sua impostazione e quella di de Lubac non esiste incompatibilità la si trova nel breve ma denso volume che nel 1977 von Balthasar ha dedicato al maestro ed amico, Henri de Lubac. In rapporto al tema del soprannaturale egli si studia di mostrare come la teologia lubachiana del soprannaturale non sia inficiata da alcun ripiegamento soggettivistico, ossia come il soprannaturale non vi venga concepito come "esigito" dalla "tendenza naturale" come "mezzo in vista del fine". Si tratta invece di mostrare come il baricentro dell'impostazione di de Lubac vada collocato nella grande Oggettività del Disegno di Dio: e von Balthasar lo fà ricordando anzitutto come de Lubac non concepisca una reciproca esteriorità tra Dio e l'uomo, che possa dar luogo a qualche forma di contrapposizione giuridistico-rivendicativa , in cui il soggetto umano potrebbe ergersi in una pretesa verso l'Assoluto; egli richiama poi come in de Lubac è per il libero Disegno di colui che è assolutamente Primo che l'uomo viene chiamato a partecipare al Suo Amore, e il desiderio del soprannaturale altro non è, in questo senso, che la voce di Dio che lo chiama a Sé: non vi è perciò spazio, incalza ancora von Balthasar, per una "esigenza naturale" intesa come una pretesa soggettivistica, dal momento che non la natura ingloba il soprannaturale, strumentalizzandolo, ma il soprannaturale deborda e abbraccia la natura, facendo leva sul desiderio naturale per "costringere" quella a riconoscerne l'abbraccio totalizzante. Questo imponente primato dell'oggettività del Disegno divino sul soggettivo riceve il definitivo suggello dall'affermazione, nella linea del pensiero di Paolo, Agostino e Ignazio, che il fine della creazione non è soltanto la nostra beatitudine, ma (anzitutto) la Gloria di Dio; di qui un disinteresse e una sorta di de-centramento da sé, come sostiene esplicitamente de Lubac, che von Balthasar cita:

«La beatitudine è servizio, la visione è adorazione, la libertà è dipendenza, il possesso è estasi»

In tutti e quattro i casi, l'accento è posto su un Centro che precede, deborda e fonda il soggetto finito, e nel Quale questi deve fissarsi. é evidente che von Balthasar condivide tale impostazione, e, benché non si sbilanci sulla formulazione "tecnica" di desiderium naturale videndi Deum, crediamo si possa dire che egli la condivide, se non formaliter, almeno eminenter. (…)

Qualche nostra valutazione

(…)

Se non si ammette questo [il desiderio dell'Infinito], non si possono spiegare dei fenomeni come i seguenti.

1)Non si spiegherebbe come il Cristianesimo possa interessare all'uomo. Se nell'uomo ci fosse solo il desiderio del finito, in Cristo e nella Chiesa il soggetto umano cercherebbe soltanto il finito: non si cerca, infatti, se non ciò che si desidera. Ma Cristo pretende di essere Dio, l'Infinito. Dunque un soggetto umano che non desiderasse che il finito non si accosterebbe a Cristo cercando in Lui la totalità della Sua Persona, ma userebbe del divino come strumento per guarire la natura: il finito subordinerebbe a sé l'Infinito. Il che non è accettabile.

Immaginiamo la risposta: l'adesione al Cristianesimo non deve essere mossa dalla volontà, ma dalla ragione. A Dio che si rivela non si arriva mediante la spinta del desiderio, ma mediante la rigorosa applicazione dell'intelligenza. Nel senso che quand'anche la nostra volontà non desiderasse che il finito, desidererebbe ottemperare alle norme di una finita moralità, tra le quali è l'obbedienza al Creatore. La ragione infatti può riconoscerNe l'esistenza a partire dai suoi effetti finiti, e stabilire i suoi attributi essenziali, tra cui il fatto di essere sommamente buono, giusto e, come nostro Creatore, meritevole di essere obbedito, se non altro perché ci conosce meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Dunque il soggetto umano dovrà indagare se per caso questo Dio non si sia rivelato. E poiché la legge morale gli impone di essere leale e di non mentire a sé stesso, analizzando i dati storico-positivi e riflettendo con la sua ragione, non potrà non pervenire alla conclusione che il Cristianesimo è l'effettiva Rivelazione di Dio. E qui la posizione del nostro obiettante si farebbe insostenibile: si può infatti ridurre la fede a risultanza di una indagine razionale? La risposta (e negare questo sarebbe sì eresia!) è no. Allora chiediamo, anche ammesso che sia giusta la via fin qui indicata, che cosa permette di saltare il fossato tra l'evidente e il mistero? Che cosa, se non il fattore affettivo-volizionale? E perché la volontà dovrebbe interessarsi alla proposta cristiana, se non perché è l'unica a presentarsi come saziante il suo desiderio più profondo?

2) Non si spiegherebbe il movente del peccato originale. Se l'uomo non avesse avuto fin dall'inizio il desiderio di Dio, che comporta come logico corollario il desiderio di essere come Dio, la tentazione originaria ("diventerete come Dio", Gn, 3,4) non avrebbe avuto alcuna presa sui progenitori. Se il desiderio umano fosse stato limitato al finito, non gliene sarebbe importato un fico secco dell'Infinito, e di essere come l'Infinito.

3) Non si spiegherebbe nemmeno la crudeltà di cui l'uomo è capace. La crudeltà, cioè la volontà di far soffrire un altro uomo (o un essere senziente, e quindi capace di soffrire), senza averne alcun tornaconto pratico (economico o di altro genere) è presente solo nell'uomo, tra tutti gli esseri della natura. Ora tale crudeltà, che ha avuto nel nostro secolo nuove forme per esprimersi in modo particolarmente forte, come nei lager nazisti, nei gulag di ogni tipo che tristemente hanno costellato e costellano il globo, non si spiega se non a partire da una rabbia. è, ci sembra, direttamente proporzionale alla rabbia che possiede un certo soggetto umano. La rabbia a sua volta deriva dalla perdita di un certo bene, che si ritiene ingiustamente sottratto. Quanto più grande è il valore del bene sottratto, tanto maggiore sarà la rabbia, e quindi la potenziale sete di vendetta, la potenziale disposizione alla crudeltà. Ora che cosa può motivare una rabbia che provochi una crudeltà come quella di cui abbiamo avuto lo spettacolo nei lager nazisti? Per giungere a tanto, occorre una causa altrettanto grande. Può la perdita di un bene finito motivare tale fenomeno? O non sarebbe più ragionevole vedere nella perdita di un bene infinito la causa della crudeltà? Volendo essere Dio, e vedendo di non poterlo essere, l'uomo diventa crudele: questa ci pare la dinamica che spieghi il fenomeno della crudeltà. Ma il voler essere come Dio, altro non è che un risvolto del desiderio di Infinito, che dunque si trova ad essere ulteriormente confermato.

4) Aggiungiamo da ultimo che il nuovo Catechismo universale della Chiesa cattolica recepisce, pur senza consacrarla in termini troppo specifici, la verità tradizionale che l'uomo è per natura desiderio di Dio, alla cui riscoperta de Lubac ha contribuito in misura determinante:

«il desiderio di Dio è iscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio (...) e soltanto in Dio l'uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa" ; il "desiderio di felicità (...) Dio l'ha messo nel cuore dell'uomo per attirarlo a sé, perché Egli solo lo può colmare"; "Dio ci chiama alla Sua beatitudine" e "la beatitudine ci rende partecipi della natura divina"; e ancora "sin dalla sua creazione l'uomo è ordinato al suo fine soprannaturale.»

Il problema a questo punto non è arrampicarsi sui vetri per salvaguardare una presunta minacciata libertà del Creatore, ma stabilire, esistenzialmente, quale importanza vogliamo dare all'Evento cristiano. Quella che viene infatti presentata come una difesa di Dio (della Sua libertà), non sarà forse più una difesa da Dio (della nostra indipendenza dalla Sua invadenza)? Se vogliamo riconoscere alla Sua iniziativa nell'Evento cristiano un posto centrale, dovremo dire, con de Lubac, con la Tradizione e con il Catechismo, che la nostra umanità non è una sfera separata rispetto ad esso, ma che in esso solo l'umano trova il suo compimento. Se invece riteniamo il Cristianesimo una aggiunta accessoria e marginale, parliamo pure di una natura pura, in sé pienamente definita e completa.»

Per proseguire si veda la scheda sul gioachimismo in De Lubac