Nietzsche

Piccola antologia di testi nicciani

Come il «mondo vero» finì per diventare favola

  1. «Il mondo vero, raggiungibile per il saggio, il pio, il virtuoso - egli vive in quel mondo, egli è quel mondo.
    (La più antica forma dell'idea, relativamente intelligente, semplice, convincente. Parafrasi della proposizione «Io, Platone, sono la verità».)
  2. Il mondo vero, irraggiungibile per ora, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso («al peccatore che fa penitenza»).
    (Progresso dell'idea: diventa più sottile, più insidiosa, meno comprensibile - diventa donna, diventa cristiana...)
  3. Il mondo vero, irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un dovere, un imperativo.
    (Il vecchio sole, in fondo, ma attraverso la nebbia e scetticismo; l'idea divenuta sublime, pallida, nordica, konigsberghese.)
  4. Il mondo vero - irraggiungibile? Comunque non raggiunto. E, in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Dunque neppure consolante, liberatorio, vincolante: a che potrebbe vincolarci qualcosa di sconosciuto?
    (Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo.)
  5. Il «mondo vero» - un'idea che non serve più a niente, che non vincola nemmeno più - un'idea divenuta inutile, superflua, dunque un'idea confutata: eliminiamola!
    (Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; rossore di vergogna di Platone; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi.)
  6. Il mondo vero lo abbiamo eliminato: quale mondo è rimasto? Quello apparente forse?... Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!
    (Mezzogiorno; momento dell'ombra più corta; fine dell'errore più lungo; culmine dell'umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA.)»

Da Al di la' del bene e del male

Da Il crepuscolo degli dei

il Superuomo

«Io vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l'uomo? [...]

Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! [... ] Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell'imperscrutabile più del senso della terra!

In passato l'anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: - essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra. Ma questa anima era anch'essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di questa anima! Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell'anima vostra? Non è forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere? Davvero, un fiume immondo è l'uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L'ora del grande disprezzo.

L'ora in cui vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù.

L'ora in cui diciate: Che importa la mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l'esistenza!.

L'ora in cui diciate: Che importa la mia ragione! Forse che essa anela al sapere come il leone al suo cibo? Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere!.

L'ora in cui diciate: Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere miserabile! .

L'ora in cui diciate: Che importa la mia giustizia Non mi vedo trasformato in brace ardente! Ma il giusto è brace ardente!.

L'ora in cui diciate: Che importa la mia compassione! Non è forse la compassione la croce cui viene inchiodato chi ama gli uomini? Ma la mia compassione non è crocifissione?.

Avete già parlato così? Avete mai gridato così? Ah, vi avessi già udito gridare così! Non il vostro peccato - la vostra accontentabilità grida al cielo, la vostra parsimonia nel vostro peccato grida al cielo! [...]


Zaratustra invece guardò meravigliato la folla. Poi parlò così: L'uomo è una fune tesa tra la bestia e il superuomo, una fune al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi.

La grandezza dell'uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell'uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione.

Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all'altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo. Io amo colui che vive per la conoscenza e vuole conoscere, affinché un giorno viva il superuomo. E così egli vuole il proprio tramonto.

Io amo colui che lavora e inventa, per costruire la casa al superuomo, e gli prepara la terra, l'animale e la pianta: giacché così egli vuole il proprio tramonto. Io amo colui che ama la sua virtù: giacché virtù è volontà di tramontare e una freccia anelante.

Io amo colui che non serba per sé una goccia di spirito, bensì vuol essere in tutto e per tutto lo spirito della sua virtù: in questo modo egli passa, come spirito, al di là del ponte. Io amo colui che della sua virtù fa un'inclinazione e un destino funesto: così egli vuole vivere, e insieme non più vivere, per amore della sua virtù.»

Da Così parlò Zarathustra.

l'eterno ritorno

«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?»

Da La gaia scienza, Libro IV, n. 341.

la visione e l'enigma

«Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte sono io -: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo - tu non potresti sopportarlo!»

Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia.

«Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti - è un'altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo". Ma, chi ne percorresse uno dei due - sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?»

«Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo».

«Tu, spirito di gravità! dissi lo incollerito non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato - e sono io che ti ho portato in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un'eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia - esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque - anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori - deve camminare ancora una volta! E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? - e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno?»

Da Così parlò Zarathustra.

il pastore e il serpente

Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e - lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: "Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.- (...) - Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -; e balzò in piedi.- Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, - e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora!

Da Così parlò Zarathustra.