Il giudizio di von Balthasar su Hegel

Brani tratti da Gloria. Nello spazio della metafisica. L'epoca moderna. ( tr. it. Jaca Book, Milano 1978, pp. 510 sgg.)

Schelling ha contribuito a ulteriormente costruire il “ponte mai compiuto” intendendo la rivelazione come forma superiore del mito; ma là dove si sarebbe dovuto inserire la pietra finale, egli fu insicuro, gli sfuggì la misura delle distanze. La mano di Hegel invece non trema, tranquillamente egli conclude l'arco, vi passa per primo sopra e lo consacra ai tempi futuri. Hegel si sa incaricato dal Weltgeist ad aprire i tempi futuri.

Noi ci troviamo in un'epoca importante, in un ribollimento in cui lo spirito ha fatto un balzo, ha lasciata e superata la sua forma anteriore e se ne è procurata una nuova. La massa intera delle concezioni e dei concetti che si sono avuti finora, i legami del mondo si sono dissolti e precipitano come un'immaginazione notturna. Si sta preparando una nuova generazione dello spirito”.

(...) Il suo iter speculativo avanza contrapposto a quello di Fichte e di Schelling: se costoro hanno cominciato con il principio dell'identità e, dopo lunga e lenta riflessione sul cammino intrapreso, furono alla fine propensi a ritrovare un cristianesimo di impronta giovannea, Hegel ha a lungo lottato dapprima a riguardo di Cristo e al senso della sua vita e della sua fondazione, per poi, decisamente, inserire nel suo sistema quanto del cristianesimo gli risultava filosoficamente utilizzabile e per respingerne i residui indigesti. A lungo egli credette di poter interpretare la vita divina e la sua irradiazione nel mondo sotto il concetto-guida dell'amore; ma alla fine questo concetto scompare pudicamente nelle interiori profondità del sapere assoluto, per agire ancora unicamente come slancio e scintilla del movimento “bacchico” di tale sapere, dove “nessuna articolazione non è ubriaca”.

Hölderlin, suo amico di gioventù a Tubinga, gli è vicino in questa svolta, 1800 circa, con la teoria del suo Iperione: hen kai pan suona la soluzione: invece di persistere congelato, insieme con Fichte e con Schelling, sul punto dell'identità, l'“uno” si scioglie nel “tutto” e là si esibisce come “pienezza di amore” e come povertà bisognosa a un tempo, per poi vittoriosamente far ritorno, con tutta la sua dispiegata verità e magnificenza, nell'unico uno. Allo stesso modo che in Hölderlin, ora anche in Hegel lo specifico cristiano si riduce al momento dell'onnipresente kenosi dell'essere, in cui per entrambi si verifica l'insuperabile “gloria” della realtà. La gloria è dunque in Hegel da nessuna parte meglio rintracciabile come nella totalità dello spirito assoluto stesso; il pensiero assoluto la irradia, in un trionfalismo riscontrabile solo in Leibniz; ma non è più ormai teodicea, bensì noodicea.

Hegel significa perciò, vista a ritroso, la conclusione definitiva di quell'interpretazione del mondo che intese il cosmo come l'esplicazione di Dio: stoicismo, Plotino, Dionigi, Scoto Eriugena, Cusano, Ficino, Spinoza, Herder, Goethe. “L'oggetto della religione come della filosofia è... Dio e l'esplicazione di Dio”. “La filosofia ha lo scopo di conoscere la verità, di conoscere Dio, poiché egli è l'assoluta verità, e da questo punto di vista non vale la pena di occuparsi di nient'altro contro Dio e la sua spiegazione”. Ma se si indaga, dato che questo è ancora troppo generico, sull'intuizione speciale di Hegel, la si può capire nel modo migliore a partire dal non-aliud cusaniano come nome di Dio. Ogni ente finito è l'aliud di un altro, ed esige, per esistere esso stesso, di quest'altro, dunque esso passa, qualora venga pensato, nell'altro e, qualora esso stesso pensa, assume sé in se stesso (sé e insieme l'altro). Questo movimento domina e penetra l'universalità della finitezza e si placa soltanto quando l'ultimo altro possibile sia integrato nell'assoluto, che già da molto tempo non è più vero,che non può avere più nessuna opposizione, perché le include tutte in sé. Il pan stesso come pienezza dell'integrazione non può più essere in opposizione nei riguardi dell'“uno” come suo altro, semmai il kai indica la loro identità. Ma in quanto il movimento, che riassume ogni volta l'uno con il suo altro in una onnicomprensiva unità, è la verità e la conoscenza, ogni conoscenza di verità deve necessariamente radicarsi nel non-aliud, cioè nel sapere assoluto: esce di qui e qui fa ritorno. Il non-aliud dunque dice in quanto negazione che ogni aliud deve essere posto nell'assoluto, per essere integrato (aufgelloben: assunto ed eliminato): posizione ed eliminazione sono un solo e medesimo processo, “l'apparire è il nascere e perire, il quale esso stesso non nasce e perisce, ma è in sé e costituisce la realtà e il movimento della vita della verità”. Al lato fenomenico dell'apparire di Dio appartengono la “fede” (o “rappresentazione”[Vorstellung]:religione) e “l'intuizione”[Anschauung]:arte), entrambe guardano attraverso il finito all'infinito che velato vi appare; la filosofia come “sapere” include e trascende tutt'e due senza distruggerle, mentre però queste due vedono in alto la gloria, la filosofia o il sapere di Dio è la gloria stessa. A un simile risultato Hegel perviene in quanto egli: 1) parte dalla rivelazione biblica; 2) elimina da essa in tre passi la gloria biblica; e 3) identifica la dottrina restante dello spirito “santo” allo spirito (divino-mondano) “assoluto”.


1) Gli Scritti teologici giovanili stanno da una parte sotto il segno di Lessing (che “casuali verità della storia” non possono sufficientemente fondare le “necessarie verità di ragione”), dall'altro sotto il segno di Fichte (che non si può pensare la divinità “oggettualmente”; perciò “ogni enunciato sulla divinità nella forma della riflessione è un contro,senso”. Dio è -l'ha insegnato e sperimentato Gesù e Giovanni l'ha capito- puro eterno amore, luce, vita: egli è perciò l'assolutamente unificante, colui che elimina la dualità (che è presupposta): “Nell'amore l'uomo ha ritrovato se stesso in un altro; poiché l'amore è una congiunzione della vita, esso presuppone separazione, uno sviluppo, pluralità di forme; e in quante più forme la vita è vivente, in tanti più punti essa si può unificare e tanto più profondamente sentire di essere l'amore”. La finitezza è come tale “dolore”, il contrapposto degli esseri è la “morte”; ma è posta solo all'interno di un tutto vivente onniabbracciante il quale pone la contraddizione per eliminarla. Nella spiegazione del prologo di Giovanni, che inizia con la prima contrapposizione, di Dio e di Logos, Hegel dice: “L'infinità del reale è l'infinita divisione come reale, tutto è mediante il Logos; il mondo non è una emanazione della divinità; poiché altrimenti il reale sarebbe in tutto e per tutto un divino; ma come reale esso è emanazione, parte dell'infìnita divisione, ma insieme nella parte... vita; il singolo, delimitato, in quanto contrapposto, morto, è a un tempo un ramo dell'infinito albero della vita” . “Ciò che è contraddittorio nel regno dei morti, non lo è nelregno della vita... Solo per gli oggetti, per le parti vale che il tutto è altra cosa dalle parti; sul piano della vita invece la parte della vita è egualmente lo stesso uno che il tutto”. Nella parabola della vite Gesù spiega questo mistero dell'integrazione dei membri nella totalità della vita. La contrapposizione dei membri ha senso soltanto a partire dal punto di vista dell'elemento unificante, di lì essa viene compresa, mentre per i membri come tali la loro unione è la cosa che viene creduta: “L'unificazione è l'attività; questa attività, riflessa come oggetto, è la cosa creduta... Il contrastante può essere conosciuto come contrastante solo per il fatto che è già stato unificato; l'unificazione è il criterio di misura in base a cui avviene la comparazione... L'unificazione stessa... viene creduta; e non può essere dimostrata, poiché i contrapposti sono i dipendenti, l'unificazione rispetto ad essi l'indipendente”. Se inoltre si ponesse che “unificazione ed essere significano la stessa cosa”, conseguirebbe: “L'essere può solo essere creduto”. Ciò vuol dire nella lingua hegeliana di poi: la sintesi, che come verità è il reale, trascende il puro intelletto (dividente), la ragione vivente ha l'elemento dell'amore in sé ed è una sola cosa con esso. In questo momento, in prossimità con l'Iperione, ci si può esprimere: “Nell'amore il diviso è ancora diviso ma non in quanto diviso: come unitario, e il vivente sente il vivente... Così gli amanti possono distinguersi solo in quanto sono mortali... Il divisorio... mette in imbarazzo gli amanti, è una specie di contrasto tra la piena dedizione, dell'unico possibile annientamento, dell'annientamento dell'opposto nell'unificazione l'identità ancora presente e sussistente; quella si sente impedita da questa-l'amore è contrariato sull'ancora diviso, su una proprietà propria; quest'ira dell'amore per l'individualità è il pudore”. La promessa dell'inseparabilità è il bambino che l'unificazione genera come qualcosa di eterno.

Se ci si innalza in questo eros al punto di vista assoluto, allora “la visione di Dio come di se stesso... è l'eterna creazione dell'universo”, la “dispersione del reale, questo porsi. del diverso e molteplice è la bontà di Dio”, “l'autoeliminazione dell'individualizzato nell'amore”, “il punto assoluto di svolta”, è “la giustizia di Dio la quale in quanto potere assoluto fa emergere il suo lato negativo nel reale”, la reintegrazione nell'autocoscienza di Dio “è l'eterna sapienza e beatitudine di Dio, la quale senza dubbio in quanto eliminazione del reale è “il giudizio”; ma questo giudizio “appunto perché il singolo è delimitato, non può giudicare astrattamente: a Dio, come giudice del mondo, poiché egli è la totalità assolutamente universale, deve spezzarsi il cuore. Egli non può giudicarla, può soltanto aver misericordia di essa”. Un confronto tra questo cristianesimo “panteistico” e quello di Origene-Evagrio è assai istruttivo e indica la distanza delle epoche: là il frantumarsi della divina monade originaria nella molteplicità del mondo era “crisi, giudizio”, e la riunificazione per mezzo di Cristo si chiamava “pronoia, provvidenza d'amore”. In Hegel invece l'autoesplicazione di Dio è “bontà”, e il ritorno che deve spezzare ed uccidere la realtà particolare è “giudizio”: ma anche questo giudizio -finisce col diventare misericordia nel mistero dell'integrazione nel tutto. Il cuore del giudice si spezza, nella con-passione per la limitatezza dell'individualizzato. Il nuovo hen kai pan è,ad assai più grande profondità di quello patristico, passato attraverso il mistero della croce.

Ma Hegel non è un pensatore debole; eredita da Schelling l'occhio da Sibilla che guarda dentro gli abissi (il ritratto di Hegel anziano di Schlesinger rivela solo questo); come in Bruno e nel giovane Goethe il lato entusiastico può rivelare il relativo lato notturno: “Dio, diventato natura, si è dilatato nella magnificenza e nella muta circolazione delle formazioni, diviene consapevole dell'espansione, della perduta puntualità, e si adira per questo. Egli trova il suo essere riversato nell'infinità senza pace né riposo, dove non c'è nessun presente, ma uno sconfinare desolato oltre i limiti che si rifanno ogni volta che sono stati superati. Questa ira... è la distruzione della natura..., è ugualmente un andare assoluto in se stesso, un divenire verso il centro. In questo centro l'ira divora le sue forme dentro di sé... Le loro ossa vengono allora triturate e la loro carne macerata nel flusso che ne consegue”. Anzi Hegel chiama l'“ira di Dio su se stesso nella sua alterità” con il nome di “Lucifero caduto”, che si inalbera contro Dio, e la cui bellezza lo rende arrogante. Ma alla fine, come in Hölderlin, “la consunta natura ascende in una nuova figura ideale come un regno d'ombre”, la sua nuova figura è “l'aver perseverato nella fiamma del dolore al centro dove, purificatasi, ha lasciato tutti “fiocchi nel tegame”. Queste forme esuberanti vengono in seguito moderate; ma la cosa resta eguale, anche se viene espressa in linguaggio cristiano: quando Dio in Cristo assume la finitezza, “questa finitezza che nella sua punta estrema è il male”, è allora un “infinito amore il fatto che Dio si è Identificato con ciò che gli è estraneo per ucciderlo. Questo è il significato della morte di Cristo”. Ma poiché è Dio che muore, la morte, il negativo, diventa mediatrice, così “che l'altezza originaria è posta come raggiunta”, e si comprende allora “che l'umano, il finito, il perituro, il debole, il negativo è esso stesso un momento divino, è in Dio stesso”.


In Geist des Christentum e nel frammento di sistema cosiddetto di Francoforte del 1800, assai vicino a Hölderlin ma anche a Schiller, e che rappresenta il transito al sistema di Jena, l'antichità e il cristianesimo si fondono grandiosamente. La vita infinita (Dio) e la vita finita (mondo) ora appaiono come “spirito” (già nell'alto significato di “vivente unità del molteplice”) e come sua “figura” (Gestalt),la quale non è “una molteplicità da Dio divisa, morta e pura molteplicità”, in cui piuttosto le “singole vite (diventano) organi” della vita infinita. Se uno è in grado di vedere l'universo in questo modo, “adora Dio” . Ma poiché la singola forma come tale deve ciononostante morire, la totalità le appare allora come “destino”, che essa può volonterosamente sopportare e attraverso cui riconciliarsi nello spirito dell'amore con la divinità. E il destino oscuro di Schiller con il quale la figura umana che si spezza matura verso l'estrema sua bellezza, di più ancora è lo “scoglio muto” di Hölderlin, urtando contro il quale l'onda del cuore si infrange e diventa spirito, ed anche per Hegel a quest'epoca la parola estrema si chiama bellezza, “bella unificazione”. In base a questa legge fondamentale Hegel ora interpreta anche lo specifico cristiano: l'incondizionata disposizione alla conciliazione, l'amore del nemico, che attraverso le apparentemente inconciliabili forme del destino è in grado di vedere la vita dell'amore e di portarla e sopportarla. Vero è che l'estraneità del destino può essere interpretata come “castigo” dell'alienazione della coscienza finita da Dio, ma questa estraneità trasfigura precisamente l'amore che si dona e perdona, e soffrendo e morendo riconcilia a sé il destino. Questa è la libertà perfetta e al tempo stesso la bellezza: “La suprema libertà è l'attributo negativo della bellezza dell'anima”


2) Questa conciliazione del genio greco con il vangelo comporta però una condizione: la totale eliminazione dell'elemento ebraico [grassetto nostro]. Nella sua insaziabile polemica piena di odio contro il Vecchio Testamento Hegel perseguita il solo elemento di cui egli non ha in nessun caso bisogno per il suo sistema pur così onniconciliante: la sovrana, dominatrice supremazia di Dio sul mondo che di puro arbitrio agisce, elegge e riprova; e perciò anche la distintiva forma veterotestamentaria della gloria divina, il kabod. Questo antisemitismo precisamente doveva emergere alla fine della nostra storia dello spirito, in cui la supremazia di Dio sul mondo - in senso antico-classico e poi cristiano - venne livellata nello schema della implicazione-esplicazione. Hegel anche nella sua età matura, quando ha ormai finito di polemizzare, continuerà a lacerare in due la bibbia e a porre tra ebraismo e cristianesimo tutta intera l'antichità. “Il principio ebraico della contrapposizione” spezza in due Dio e il mondo: in questo modo il concetto di Dio diventa un concetto “senza contenuto e vuoto”, astratto, “senza vita, neppure soltanto morto, un niente”, il quale tuttavia quale “oggetto infinito” pretende per sé tutta la verità, la libertà, la giustizia, cosicché l'uomo decade a “pura proprietà di Dio”, che gelosamente preme per avere venerazione e adorazione, odia ogni altro culto e comanda quanto possibile di distruggerlo, fa vivere e servire davanti a lui i suoi servi in una “triste e vuota unità”, senza bellezza, senza conseguire “parte a un eterno di nessun genere”. Egli attizza in essi “il demone dell'odio”; “un popolo che dispregia tutti gli Dei stranieri, deve portare nel petto l'odio per tutto il genere umano” . Israele perciò come popolo è “disceso all'inferno nella follia dell'odio”, e ciò che oggi ancora ne è rimasto come segno in mezzo ai popoli è l'“ideale dei più reprobi”, come Tersite in mezzo agli eroi greci. è il “popolo infelice” allo stesso modo che poi nella Fenomenologia sarà designata come “coscienza infelice” la lacerazione tra Dio e il mondo. La religione di Israele è la pura “positività” dal momento che sta di continuo alla dipendenza schiavistica dellarbitrio del suo Dio astratto, e questo è “immoralità”. La totale riprovazione di Hegel viene in qualche modo relativizzata con l'inserimento dell'elemento ebraico nell'elemento in genere orientale con la sua astratta e vuota idea di Dio (India, Islam) e le sue molteplici compensazioni di essa mediante uno “straniero splendore d'accatto” (kabod): da questa sfera deriva la dialettica tra “dominio universale e volontaria propensione a ogni schiavitù”, da cui più tardi si sviluppa il capitolo così fatale di sviluppi della Fenomenologia su signore e schiavo; qui l'elemento ebraico si lascia finalmente incasellare come un fenomeno del tutto relativo nelle interpretazioni della “filosofia della religione”, dell'“estetica” e della “storia della filosofia”. Ma questo non impedisce che all'origine ci sia un no elementare a una realtà biblico-teologica: all'elevazione del Dio d'Israele al di sopra di ogni arrotondante reciprocità tra complicazione ed esplicazione.

In tal modo nella classica teoria tedesca della sublimità il concetto del sublime trova definitivamente il suo posto assegnato al passato: essa ce l'ha, questo posto, nella grande “estetica” dopo l'“inconscio simbolismo” dei persiani, degli indiani e degli egiziani, come pure dopo l'islamico “panteismo dell'arte”: nel simbolismo della sublimità” “l'esistenza esteriore in cui la sostanza attinge l'intuizione viene degradata di contro alla sostanza, in quanto questa degradazione e disponibilità è l'unico modo con cui Dio l'unico quanto a sé informe e non esprimibile mediante nulla di mondano e finito secondo la sua essenza positiva può essere reso intuitivo mediante l'arte”. L'esteriore è così sottomesso che l'interiore “non vi compare ma vi fuoriesce in modo che nulla tranne appunto che un essere fuori e un uscire fuori è in grado di giungere all'espressione” .

n.b.

Dalle pagine citate sono state tolte le note.