Io-biglia o io-mistero?
non siamo immediata e totale autotrasparenza
Francesco Bertoldi
una facile illusione
Che la realtà fuori di noi sia mistero, abbia in sé qualcosa che ci sfugge, almeno in parte, è abbastanza facile da ammettere. Tranne nel caso di certe posizioni estreme, come un positivismo che pretendesse di attribuire alla scienza una conoscenza totale e perfetta di tutto, è facile riconoscere che almeno qualcosa “la fuori ” non lo conosciamo ancora, o non del tutto.
Ma più raro è che ci sia chi si renda conto di essere mistero a sé stesso, che a non essere pienamente conosciuta sia la propria stessa realtà, la propria soggettività. Uno degli inganni, infatti, in cui più frequentemente possiamo cadere è di credere di sapere tutto di noi stessi: “io so tutto di me”.
Non parliamo tanto della dimensione fisica, cioè del nostro corpo, perché lì è più incontestabile che uno non sappia tutto di sé: è il caso delle malattie, per diagnosticare le quali abbiamo bisogno che altri, medici o specialisti, ci visitino, e ci facciano sottoporre ad esami, magari ripetuti e numerosi. E magari per non riuscire nemmeno loro a capire “che cosa abbiamo ”, da che cosa dipenda cioè un certo sintomo. Che non conosciamo del tutto il nostro corpo, quindi, è ancora facile da ammettere. Quando però parliamo del nostro io più interiore, della nostra realtà psico-spirituale, lì al contrario non è affatto difficile, anzi è quasi inevitabile che uno pensi di aver capito tutto di sé. O almeno tendiamo a pensare di aver capito, di noi, più di quanto in realtà abbiamo effettivamente capito.
smascherata da molti
Eppure non pochi, tra gli autori più pensosi della condizione umana, ci hanno messo in guardia dal credere che un io possa aver capito tutto di sé.
letterati
Già dei letterati antichi ad esempio notavano questa mancanza di autotrasparenza, che si traduce in un conflitto interiore tra spinte contrastanti, come in Ovidio che fa dire a Medea «video meliora proboque, sed deteriora sequor» (Met. VII, 20-21).
O come in Catullo, quando osserva in sé stesso una lacerante opposizione tra due sentimenti opposti:
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior
Alla non totale autotrasparenza dell’io allude anche Lucrezio quando osserva che «ognuno fugge sé stesso», perché, malato, non conosce la vera causa (e quindi nemmeno il rimedio efficace) della malattia; ma non potendo davvero riuscirci (effugere haud potis est), finisce per odiarsi:
«Hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
(De rerum natura, l.III, v.1069-71)
effugere haud potis est, ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger»
L’odio di sé, di un sé che non si riesce a padroneggiare, è qualcosa di cui parla anche Bernanos nel Diario di un curato di campagna, quando il protagonista scrive, tra le sue ultime parole:
«Il est plus facile que l’on croit de se haïr. La grâce est de s’oublier. Mais si tout orgueil était mort en nous, la grâce des grâces serait de s’aimer humblement soi-même, comme n’importe lequel des membres souffrants de Jésus-Christ.» trad.
Analogamente Montale ammonisce a che non (gli) si chieda
la parola che squadri da ogni lato
da Ossi di Seppia, 1923.
l'animo nostro informe, (...)
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
filosofi
Ma, oltre ai letterati, anche tanti filosofi hanno evidenziato una non totale autotraspoarenza dell’io: pensiamo a Agostino, a quanto dice nella sua autobiografia, le Confessioni, in cui guarda con accorato rammarico ai periodi in cui cercava la sua felicità fuori di sé, tradendo così sé stesso (e quanto egli avvertiva come più vero e giusto dentro di sé).
O pensiamo a Pascal per il quale è facilissimo che gli esseri umani trascorrano gran parte della loro vita trascurando il loro io, nella dimenticanza, in quel divertissement che è fuga da sé.
“Noi non cerchiamo né il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte” (fr. 139).
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L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore delle nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte.(fr. 171).
O pensiamo a Kierkegaard, per il quale la cosa più facile è che uno prenda sul serio solo una parte del suo io, o quella relativa al finito, o quella protesa all’Infinito, e disperi di potersi realizzare nella sua, misteriosamente non possedibile, interezza. O pensiamo, ancora, a Heidegger, che sottolinea la estrema facilità con cui gli esseri umani vivono una esistenza inautentica, che censura qualcosa di reale del loro io, che è un essere-per-la-morte.
Qualcosa di molto simile lo si trova anche nell’idea, freudiana (e psicoanalitica), di inconscio: l’io non è totale autotrasparenza. Molte cose di noi stessi sfuggono alla nostra piena consapevolezza. Va detto peraltro che l’idea freudiana di inconscio si limita a un livello piuttosto circoscritto dell’io, potremmo anche dire più epidermico di quello a cui vogliamo riferirci qui.
uomini religiosi
Lo ha ricordato tra gli altri Giovanni Paolo II: l’uomo senza Cristo, quindi l’io senza Cristo, rimane mistero a sé stesso:
«L’uomo (…) rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore - come è stato già detto - rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso. (…)
(Redemptor hominis, cap. II, § 10)
Ma aprirsi a Cristo non è automatico: quindi, lasciato a sé stesso, l’io è mistero, non si conosce fino in fondo.
Anche per questo i grandi maestri di spiritualità hanno raccomandato un «abitare secum», che è un «redire in seipsum», espressioni con cui san Benedetto da Norcia riecheggia l’agostiniano «noli foras ire» («non uscire da te», perché il criterio fondamentale con cui puoi capire dov’è la verità è in te).
Anche don Giussani, ad esempio nel primo capitolo de Il senso religioso, indica nell’esperienza elementare (o cuore, come unità di ragione e sentimento) il criterio da usare per non essere alienati, cioè asserviti a una ideologia impostaci dal potere, da un potere esterno, poco o tanto violento. Ecco le sue parole:
che tipo di fenomeno è l’esperienza religiosa? Essa è un fenomeno che attiene all’umano, pertanto non può essere trattata come un fenomeno geologico o meteorologico. È qualcosa che riguarda la persona. (…) Poiché si tratta di un fenomeno che avviene in me, che interessa la mia coscienza, il mio io come persona, è su me stesso che devo riflettere. Mi occorre un’indagine su me stesso, un’indagine esistenziale. (…)
Se non si partisse dall’indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro. Il che, se non fosse conferma, arricchimento o contestazione a seguito di una riflessione già personalmente intrapresa, renderebbe l’opinione altrui supplenza di un lavoro che mi compete e veicolo d’opinione inevitabilmente alienante. Di una questione importante per la mia vita e per il mio destino adotterei acriticamente un’immagine indotta da altri.»
Giussani, Il senso religioso, cap. 1, § 3
Quindi anche per Giussani l’io può ingannarsi riguardo a sé (e alla realtà tutta): lo può, se non usa di quella che in altri passi chiama esperienza elementare («un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste», op.cit., cap.1, § 5 ). Quello che qui ci interessa è che non è automatico che uno usi la propria esperienza elementare, il proprio cuore, il che significa che uno non è automaticamente autentico, non è automaticamente sé stesso.
La raccomandazione agostiniana di «non uscire da sé», quella benedettina di «abitare con sé stessi» e di «rientrare in sé stessi», e quella giussaniana di usare la propria esperienza elementare per non essere alienati, appena richiamate, non avrebbero senso se tutto ciò avvenisse automaticamente. Cioè se io sapessi e non potessi non sapere tutto di me.
Una ulteriore conferma della non automaticità della propria autocoscienza viene tra l’altro dalle testimonianze di chi si è riscoperto altro da quello che aveva immaginato di essere. Così il retore romano Gaio Mario Vittorino poté affermare:
«Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo»
implicazioni della non autotrasparenza
Una conseguenza di questa non automatica autotrasparenza dell’io, di questo non sapere fino in fondo tutto di sé è il fatto di non sapere fino in fondo che cosa può realizzare il nostro sé. Saprei esattamente che cosa mi può soddisfare fino in fondo, se sapessi esattamente e fino in fondo chi sono. Ma così non è.
Tanto è vero che, come ha sottolineato in modo molto efficace Schopenhauer, qualsiasi obbiettivo uno si fosse prefisso come capace di garantirgli la sua piena realizzazione, si rivela puntualmente, una volta raggiunto, come deludente, come incapace cioè di mantenere la promessa. Eppure, noi continuiamo a identificare la nostra realizzazione in obbiettivi determinati, finiti, per quanto ricorrentemente deludenti.
l'inevitabilità della guerra
Tra le conseguenze di tale irragionevole convinzione, di sapere tutto di sé, c’è la inevitabilità della guerra, con gli altri. Se io so tutto di me, so anche perfettamente che cosa mi può soddisfare, ossia, inevitabilmente qualcosa di perfettamente comprensibile, ossia un obbiettivo finito, delimitato, particolare, divisibile e senza del quale non posso realizzarmi. Ma questo obbiettivo, circoscritto e divisibile, è non meno inevitabilmente qualcosa che mi è conteso da altri, con i quali pertanto non potrò che scontrarmi. Tanto più che se penso di aver capito tutto di me, penso che anche gli altri siano facilmente comprensibili, siano delle biglie perfettamente delimitate, delle piccole sferette geometricamente ineccepibili nella loro totale comprensibilità.
Se invece non siamo delle biglie, ma io e l'altro siamo mistero a noi stessi, allora posso pensare che l'io dell'altro, nella misura in cui fa il male - e quindi (magari) fa del male anche a me - fa anzitutto del male a sé stesso, perché tradisce sé stesso, ignora e storpia il suo sé totale (quello che per lui, per il suo “io” è il “me” totale), pretendendo - violentemente - di essere quello che non è.
In effetti se non esistesse una dialettica io/me, se tutto fosse esaurito nell'io-biglia, nell'io immediatamente dato, tutto quello che uno fa lo realizzerebbe automaticamente, e non avrebbe senso parlare di scelte con cui uno faccia del male a sé stesso.
Così, come anticipato, potremmo chiamare io-biglia un “io” così concepito: qualcosa di piccolo e di totalmente comprensibile, di illuminato a giorno in ogni suo angolo. Se io mi concepisco come una biglia, concepirò anche gli altri come biglie. Biglie che sanno tutto di sé e di cui anch’io posso sapere tutto. Senza che né in me, né negli altri ci sia alcun mistero.
l'impossibilità di un cambiamento di sé
Tra l'altro ciò implica che non si possa dare nemmeno alcuna possibilità di cambiamento: si può infatti cambiare davvero solo se ci si può inoltrare nel mistero, se si può scoprire di sé qualcosa che non si sapeva di essere. Altrimenti c’è solo la meccanica applicazione di regole e calcoli prevedibili.
l'assurdità dell'etica cristiana
Di più, se noi fossimo degli io-biglie che hanno capito tutto di sé, la proposta (etica) cristiana non potrebbe che apparire moralistica, dato che imporrebbe delle norme che “scomodano” l'io-biglia, che gli chiedono, a quel punto violentemente, di essere diverso da quello che è (da quello che lui crede di essere), gli impongono un giogo che nulla avrebbe a che fare con la sua verità, con la verità di sé, dato che questa sarebbe già immediatamente, automaticamente e perfettamente conosciuta.
Solo se l'io è mistero, solo uno non ha già già capito tutto di sé, una proposta che chiede di cambiare quello che immediatamente uno percepisce come più facile e più comodo, può essere visto come un inoltrarsi alla scoperta di sé, un andare sempre più al fondo della verità di sé, uno scoprire sempre più che quello che si è è molto più di quello che uno immediatamente pensava.
l’io reale
Ma siamo davvero delle biglie? Sappiamo davvero tutto di noi, come di qualcosa di perfettamente comprensibile, di solarmente chiaro fin nei più reconditi angoli, e che quindi sé, immediatamente e automaticamente, che cosa ci può realizzare? Se fosse così, l’unico motivo per cui uno sperimenta di non realizzarsi, sarebbe una avversa fortuna, l’avverso configurarsi di circostanze esterne.
Non siamo piuttosto mistero a noi stessi? Non dobbiamo distinguere tra io, come “ pilota ” e responsabile della nostra umanità, e il me totale, come totalità della mia realtà, enormemente maggiore di quanto io stesso posso conoscere? Ci sono due paragoni, peraltro molto imperfetti, al riguardo. Il primo lo si è anticipato, parlando di “pilota”. E’ un paragone usato da Gilbert Ryle nella sua efficace metafora con cui egli sintetizza l’antropologia cartesiana: l’uomo, per Cartesio, è un angelo (uno spirito, gost) che guida una macchina (G. Ryle, The concept of mind, London, 1949). Così l’io, nella sua immediata consapevolezza, potrebbe essere paragonato al pilota di un’automobile, di cui non conosce fino fondo le caratteristiche e il funzionamento. L’altro paragone, simile a quello di Ryle, è il mito platonico del carro alato, che esprime una dialettica interna alla soggettività, con l’io razionale come auriga di qualcosa (i due cavalli) che non può controllare totalmente.
Queste metafore esprimono il fatto che
- il me totale è qualcosa di più grande dell’io, e che l’io quindi non conosce e non controlla fino in fondo,
- ma che al tempo stesso l’io può modificare, essendo qualcosa che gli è affidato (e che può portare a buona destinazione o a precipitare rovinosamente).
Ma si tratta comunque di paragoni imperfetti: il me totale è ben più di una macchina o di una biga da guidare. In ogni caso, quello che è indubbio è che c’è una dialettica tra io e me. La parola me, accusativo, uno dei pochi accusativi rimasti dalla lingua latina in quella italiana, esprime, come ogni accusativo, un oggetto, un ob-jectum, un gettato-davanti, un dato, qualcosa che non sta a me (non sta all’io) far esistere o meno, né sta a me decidere come sia. C’è: mi è dato. Come una sorta di “oggettività interna” (alla soggettività totale). Nella mia soggettività c’è un soggetto (l’io) e un oggetto (il me), un oggetto interno.
La vita mi è data perché io mi realizzi, perché io realizzi il me. Dove il punto non è soltanto la (parziale) misteriosità del me, la sua non totale e immediata comprensibilità, ma anche il suo essere oggettivamente strutturato. Per tornare alla metafora della macchina: io non posso pretendere che una macchina faccia qualcosa di diverso da quello per cui è stata progettata e che solo quindi è in grado di realizzarla. Se un’automobile va al massimo a 120 k/h non posso farla andare a 300 k/h, o se è fatta per viaggiare su asfalto non posso usarla per navigare, e nemmeno per sterrate molto accidentate.
i limiti
Ma non è affatto automatico che io accetti il carattere determinato (/limitato) del me: spessissimo siamo insofferenti dei limiti che la nostra natura ci impone, sia in quanto natura umana, sia in quanto caratteristiche individuali. Ed è anche per questo che, come ricordava Bernanos, “odiarsi è più facile di quanto si creda”, perché io non posso fare di me quello che voglio, non posso ottenere da me, dal soggetto che io sono, dal mio me, quello che vorrei. Aveva un bel pretendere Sartre che l’io fosse un Per Sè come pura libertà, capace di autocrearsi in base a un suo progetto, senza alcun limite.
Analogamente Nietzsche non era realistico pensando che l’uomo avrebbe potuto diventare un Superuomo capace di inventarsi come soggettività senza limiti. Non è così, non è possibile: noi abbiamo una natura che non abbiamo scelto noi, con dei limiti che possono non piacerci, e infatti per lo più non ci piacciono. Quello che è in nostro potere è solo decidere se accettare la nostra natura oppure ribellarci ad essa. Se ci ribelliamo alla nostra natura, ci possiamo solo fare del male. E averne come conseguenza solo un’autodilaniante sofferenza:
«tutti gridavano: “a Filippo Argenti”
(Dante, La divina commedia, Inferno, Canto VIII)
e il fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti»
Del resto probabilmente lo stesso ultimo ingresso di Nietzsche in uno stato di pazzia conclamata può essere visto come il prezzo che egli dovette pagare al suo “ folle ” sogno di autodivinizzazione.
il desiderio
Perché giacendo A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Possiamo odiarci per i limiti che abbiamo, ma lo possiamo anche perché la nostra natura, il nostro me, ci spinge a desiderare qualcosa che non sta a noi smettere di desiderare: la perfetta (e quindi infinita) felicità. Il desiderio infatti è qualcosa di potente in noi, e che non è in nostro potere accendere o spegnere a piacimento, come non lo è decidere che cosa lo possa pienamente colmare. Anche questo documenta la dialettica tra io e me: il desiderio è espressivo del me, della profondità del me, della mia soggettività totale e profonda. E il desiderio sta lì, implacabile. A ricordarci che non ci siamo creati da noi, e che siamo mistero a noi stessi.
Eppure il desiderio è il massimo indizio della nostra grandezza, del fatto che nulla di meno dell’Infinito ci può appagare. E’ un indizio che effettivamente desiderare di essere divini non è di per sé sbagliato e folle. Sbagliato e folle è pensare di poter diventare divini con le nostre forze. E non, come la fede cristiana insegna, come umile accoglienza di un dono. In effetti noi siamo chiamati, assecondando il desiderio che è in noi, ad aderire alla proposta cristiana, a diventare cioè, in Cristo, partecipi della natura divina, partecipi della vita del Mistero unitrino.