L'umanesimo antropocentrico

Non è facile definire esattamente quale sia stato l'umanesimo antropocentrico, non perché non ne sia chiara la natura, astrattamente parlando, l'idealtipo di umanesimo antropocentrico, quanto piuttosto per il fatto che vi è stato un abbondante lavoro della storiografia di matrice cristiana teso a dimostrare che autori moderni un tempo bollati come immanentisti, e quindi irreparabilmente “avversari”, possono in realtà essere letti in un'ottica più benevola, e reintegrati in prospettiva cristiana.

Perciò, anche per metterci al riparo dal rischio di commettere ingiustizie verso delle persone, incasellandole riduttivamente in un dato schieramento, mi soffermerò piuttosto su dei temi che su dei singoli autori.

1. Il dualismo fede/ragione o la doppia verità

Sia il vostro parlare sì, sì, no, no; il di più viene dal maligno

Questa impostazione, della doppia verità, sostiene che tra ragione e fede esiste una insanabile contraddizione, e tuttavia entrambe sono da ritenersi, ognuna al proprio livello, vere e accettabili. C'è la verità della fede, e c'è la verità della ragione: l'una fa a pugni con l'altra, ma l'una e l'altra hanno diritto a sedere nel simposio della cultura. Questa tesi non è compatibile con la fede cristiana (come del resto non lo è con la stessa ragione). Anche perché in base ad essa è in realtà la ragione a sedersi sul trono della verità, mentre la fede dovrà accontentarsi di uno sgabello: due verità contrastanti infatti non possono essere davvero sullo stesso piano (viene in mente il detto evangelico «non si possono servire due padroni»), e inevitabilmente si finirà col crederne vera solo una, solo quella razionale.

Mantegna, Cristo morto
Mantegna evidenzia qui il limite dell'Uomo Gesù

La tesi della doppia verità è in effetti una tappa transitoria porzione di testo disponibile solo nell'edizione acquistabile, in digitale o cartaceo, su Amazon [...].

Pomponazzi

(Mantova 1462/Bologna 1525) divide in modo netto le verità razionali da quelle di fede, e finisce col ritenere affidabili solo le prime. Così, nel caso dell'uomo, egli afferma che non si può sapere se l'anima sia immortale, anzi la pura razionalità deve piuttosto pensare ad una sua mortalità. Può essere interessante sentire una delle motivazioni in merito. È da escludere - sostiene Pomponazzi - che esista un'anima immortale, dato che

«di gran lunga maggiore è il numero degli uomini che si comportano da bestie anziché da uomini, e in tutte le regioni abitabili se ne troveranno pochissimi che vivono secondo ragione. E facendo un attento esame anche tra questi ultimi, si potrebbe dire senz'altro che neppure essi vivono secondo ragione, ma si afferma di loro ciò, solo in paragone ad altri in tutto simili alle bestie, come si dice a proposito delle donne, che nessuna è saggia se non in paragone ad altre completamente sciocche.»

Possiamo qui osservare tra l'altro il pessimismo di Pomponazzi per l'uomo concreto (e per la donna concreta).

Altra tema soggetto a doppia verità: la provvidenza. Anche nel caso del rapporto tra Dio e creato, la ragione non può pervenire ad affermare alcuna provvidenza in senso cristiano, cioè tale da garantire al tempo stesso la libertà del volere umano. Esiste infatti tra provvidenza e libertà una insanabile contraddizione, che vede la ragione naturale incapace di decidere quale sia la giusta soluzione. Quella che presenta meno contraddizioni è la soluzione degli stoici, che però conduce a pensare che Dio sia di tutti il più crudele, carnefice sopra i carnefici, ingiustissimo e insomma ripieno di ogni malizia (De fato, l.II, c.7) in quanto vuole il male, la sofferenza, le crudeltà che attraversano la vita e la storia umane.

Ancora: Pomponazzi non può accettare un intervento miracoloso di Dio, fuori dalle leggi naturali; per lui la ragione deve limitarsi a constatare il caso, e la necessità naturale: ciò che appare come soprannaturale è in realtà semplicemente insolito e strano, ma ha una sua ben precisa causa nelle forme e nelle forze naturali dei corpi celesti (è quanto sostiene nel De incantationibus). Anche qui: la fede dice una cosa, la ragione un'altra.

Infine, per ciò che riguarda l'etica, egli critica il fondamento trascendente del comportamento morale: non bisogna fare il bene, essere virtuosi in vista di un premio, o per timore di un castigo ultraterreno, ma per l'intrinseco valore della legge morale (immanente).

Quindi la fede afferma l'immortalità, la Provvidenza, l'iniziativa soprannaturale di Dio, il compimento trascendente dell'azione morale: la ragione pensa esattamente il contrario, ed è in fondo alla ragione che Pomponazzi, se a qualcosa crede, dà credito.

Ma che tipo di ragione è questa, per poter essere così in contrasto con la fede? Come spiegare che, pur avendo entrambe per oggetto la realtà, tali fattori di conoscenza entrino in conflitto tra loro? Pomponazzi stesso descrive il suo tormento di filosofo, incapace di approdare a delle vere certezze, con l'immagine di Prometeo:

«Prometeo veramente è il filosofo che, mentre vuol conoscere i misteri di Dio, è roso da perpetue preoccupazioni e pensieri; non ha sete, non ha fame, non dorme,(..) è irriso da tutti,(..) perseguitato dagli inquisitori, curioso spettacolo per il volgo.»

Incertezza e lacerazione caratterizzano il filosofo-Prometeo: si può dire che non solo la ragione è divisa dalla fede, ma anche che essa è divisa in sé stessa (con evidenza nel caso di provvidenza/libertà), incapace di semplicità e di unità, di adesione a una verità che possa riconoscere con certezza.

Ma l'immagine di Prometeo appare significativa del perché la ragione si sia ridotta a tale incapacità. Forse proprio perché ha voluto rubare il fuoco agli dèi, cioè ha voluto carpire con violenza “i misteri di Dio”; con violenza, perché ha fatto dei propri ridotti criteri il metro assoluto, la misura con cui giudicare lo stesso Infinito. Si tratta insomma di una ragione non concepita come misurata dall'oggettivo, ma pensata come misura di tutto, e come tale incapace di dilatarsi ad accogliere la dimensione del non-pienamente-razionalizzabile, cioè del mistero.

In effetti questo concetto di ragione implica un suo ripiegamento su una misura parziale, una sua incapacità di abbracciare il reale nella sua totalità. La ragione non dispiega pienamente le sue ali (come direbbe Eliot), non effettua più il periplo compiuto dei problemi, ma si accartoccia su se stessa: tecnicamente questo è evidenziato dalla intrascendibile immersione della ragione nell'ambito sensibile-fantastico. Impossibile sollevarsi sopra i densi vapori di un'aurora sensibile-materiale, inutile aspettare il pieno meriggio di una autentica apertura al vero totale e assoluto.

Del resto una analoga concezione andava parallelamente facendosi strada anche in ambito teologico, ad esempio con il Gaetano, non a caso influenzato dall'aristotelismo padovano. Questo teologo domenicano, come scrisse di più su de Lubac, uno dei più grandi teologi del XX secolode Lubac (in Agostinismo e teologia moderna, tr. it. Jaca Book, p.262):

«sincero credente, non rifiuta il soprannaturale, ma lo colloca tra le cose “miracolose”, cioè tra le eccezioni arbitrarie, delle quali il filosofo -anche all'interno della fede- non deve occuparsi nel suo sforzo razionale. [..] La teologia diviene così una specializzazione marginale. Non esiste più concezione cristiana dell'uomo.

Il fossato che viene scavandosi tra una ragione puramente filosofica, e una fede concernente una realtà diversa quella dell'esperienza, è tale da distruggere un possibile sguardo unificato sul reale, in cui la ragione sia lievitata e riplasmata dalla fede.

2. L'uomo: una affermata non-dipendenza

chiarificazione preliminare

Una delle caratteristiche comunemente attribuite all'umanesimo è, come suggerisce lo stesso nome, l'entusiasmo per la dignità dell'uomo, una decisa sottolineatura del suo grande valore. Ma, come già accennato, questa esaltazione dell'uomo, se debitamente intesa, è non solo compatibile col Cristianesimo, ma è da questi postulata; anzi è giusto dire che è stato proprio il messaggio cristiano il primo a concepire il valore dell'uomo, come hanno ricordato (e come troppo pochi nelle scuole ricordano) de Lubac e Maritain, per non citare che loro:

«Ragione, libertà, immortalità, dominio della natura: sono altrettante prerogative, divine nella loro sorgente, che Dio comunica alla sua creatura e fa risplendere sul suo volto. [..] In tal modo questi privilegi schiudono all'uomo il destino più sublime.

“Conosci dunque te stesso, o uomo”! ecco il grido che la Chiesa, nella voce dei suoi dottori e dei suoi apologisti, la Chiesa dei primi secoli lancia ovunque intorno a sé. [..] “Conosci te stesso”, essa dice, cioè conosci la tua nobiltà e la tua dignità; comprendi la grandezza del tuo essere e della tua vocazione [..] sappi vedere in te lo spirito, riflesso di Dio, fatto per Dio. (p.15)

Queste elementari verità ci sembrano oggi assai comuni [..] con difficoltà riusciamo ad immaginare lo sconvolgimento che esse portarono nell'anima antica. Al primo annuncio che ne ebbe, l'umanità fu sollevata dalla speranza. La pervadevano oscuri presentimenti, che come contraccolpo rendevano più acuta la sua sensazione di miseria. Essa si sentì liberata. [..] Gli astri, nel loro corso immutabile non regolavano più il nostro destino. L'uomo, qualunque fosse, aveva un legame diretto col suo Creatore, Sovrano stesso degli astri.» Henri de Lubac, Il dramma dell'umanesimo ateo, p. 17 della traduzione Morcelliana, Brescia 1978cap. 1°, § 1.

Si tratterebbe allora di spiegare perché si sia verificato l'equivoco di contrapporre umanesimo a Cristianesimo: come suggerivano sia de Lubac sia Maritain, bisogna distinguere tra diversi tipi di umanesimo, di esaltazione dell'uomo. Si può aver deciso di esaltare l'uomo come assoluta indipendenza, concependo la sua libertà come assenza di legami, come il non dipendere da altri, e ultimamente dall'Altro; e in questo modo l'esistenza di un Redentore e di un Creatore non possono che essere un limite, un freno, una minaccia alla libertà. Se esiste Dio, non posso più essere io il centro di tutto, non posso essere io Dio (a meno che Lui stesso non lo voglia: ma per essere divinizzato dovrò appunto accettare di dipendere dal cammino che Lui decide). E quindi per affermarsi, un tipo umano del genere non può che lottare contro la religiosità, e in particolare contro l'evento cristiano. E' questo che fa l'umanesimo antropocentrico.

Ma esiste anche un umanesimo teocentrico (Maritain, op. cit., p.81), che pensa che la vera realizzazione dell'uomo non sia se non in Dio. Quel Dio che non va contro la sua creatura, ma è anzi l'unico che, avendola creata, conoscendola nel modo più perfetto possibile, e amandola di un amore infinito, può sapere e volere il suo vero bene. Questo atteggiamento non vede Dio come un estraneo, e magari crudele e oppressivo, che gravi di pesi assurdi i suoi adoratori, ma Lo vede come Uno che ci costituisce nel nostro intimo: “intimior intimo meo”, diceva S.Agostino. Di conseguenza ritiene che andare contro il Creatore e Redentore, contro il Significato, sia autodistruttivo. La storia contemporanea documenta abbondantemente, in effetti, di che cosa sia capace l'uomo, una volta respinta la dipendenza dal Mistero: le guerre mondiali, i campi di concentramento (Hitler, Stalin, Pol-Pot), la diffusa estraneità presenti nelle civiltà secolarizzate possono essere lette come documentazioni del tragico equivoco di un umanesimo senza Dio.

un ingenuo ottimismo sull'uomo

Masaccio, la Trinita
il Mistero dentro il cerchio della finitezza razionale

1. In generale. Ciò chiarito vediamo di evidenziare alcuni tratti dell'antropocentrismo, presente in certa cultura umanistico-rinascimentale. porzione di testo disponibile solo nell'edizione acquistabile, in digitale o cartaceo, su Amazon [...]

Se in Ficino un certo ottimismo antropocentrico affiora appena, in modo timido e velato, esso si afferma con forza ben più spavalda nel pensiero di Michel de Montaigne (1533-92), ad esempio riguardo al tema della morte: questo fenomeno, così grave e inesorabile, che ha sempre costituito un motivo di riconoscimento della non-autosufficienza umana, della non-divinità dell'uomo, un perentorio ricordo della sua limitatezza, della sua fragilità, viene ora inquadrato in una prospettiva di orgogliosa autosufficienza. Inutile e dannoso è per questo filosofo pensare alla morte, e temerla: essa è un evento naturale, da affrontare senza ansie o “preparazioni”.

«Se non sapete morire, non preoccupatevene: la natura vi istruirà sul momento (..); non datevene voi la briga. (...)

Se avremo saputo vivere con fermezza e tranquillità, sapremo morire allo stesso modo.»

Non si può non vedere la grande differenza tra la sincerità di chi (come il protagonista del Non morrò senza lacrime. Giacché nulla m'è piú estraneo d'una morte stoica, perché mi dovrei augurare la morte degli impassibili? Gli eroi di Plutarco m'ispirano paura e insieme noia. Se entrassi in Paradiso sotto questo travestimento, mi sembra che farei sorridere il mio Angelo custode.
Perché dovrei inquietarmi? Perché prevedere? Se avrò paura, dirò: Ho paura, senza vergogna. Il primo sguardo del Signore, quando mi apparirà la sua Santa Faccia, sia dunque uno sguardo che rassicura!
) non censura quell'umanissimo sentimento che è la paura, la paura di dissolversi, e la compassata e artificiosa freddezza del pensatore francese: Montaigne non chiede niente. Non domanda. Crede di avere in sè già tutto.

2.la bontà naturale. L'esaltazione ingenuamente (o acriticamente) ottimistica dell'uomo è visibile anche nella rivendicazione della bontà della natura umana nella sua attuale, storica condizione. porzione di testo disponibile solo nell'edizione acquistabile, in digitale o cartaceo, su Amazon [...]

Ma è soprattutto con un altro tema sviluppato dal già ricordato Montaigne, che vediamo fin dove giunga questo ottimismo. Per il filosofo francese, che sarà in ciò ripreso da diversi altri pensatori moderni, come Spinoza, non ha alcun senso il pentimento:

«Io posso desiderare di essere diverso; posso condannare e dispiacermi della mia forma universale e supplicare Dio per la mia riforma radicale e per la scusa della mia debolezza naturale.»

Sembrerebbe qui che Montaigne aspiri a una pienezza di sé, addirittura invocando Dio, chiedendo il suo intervento. Ma non ci si lasci ingannare, si tratta di un paradosso:

«Ma questo non posso chiamarlo pentimento, più che non posso chiamare pentimento il dispiacere di non essere angelo o Catone. Le mie azioni sono regolate e conformi a ciò che io sono e alla mia condizione. Io non posso far meglio.»

Ora, il pentimento non tocca propriamente che le cose che non sono in nostro potere. Perciò dire io non posso far meglio, non posso essere altro da quello che sono, perché far meglio implicherebbe essere un altro (angelo o Catone), avere un'altra natura, significa negare alla radice la possibilità del pentimento. Infatti Dio, che come si vede Montaigne non nega, ma a cui non mostra nemmeno di credere per davvero, potrebbe sì darmi un'altra natura; ma fin tanto che mi lascia questa, il mio comportamento ne scaturisce in modo spontaneo e inevitabile. Non ho quindi niente da rimproverarmi: ho sempre fatto quello che non potevo non fare.

Si può osservare come un paragone tra ciò che costituisce la mia profonda e vera natura umana e quella che è la mia situazione effettiva, non è nemmeno preso in considerazione. E' vero che Montaigne non ritiene tutto ciò particolarmente esaltante, riconoscendo la componente di mediocrità, che comunque accompagna e intesse la condizione umana. Resta però che la sua proposta prevede una chiusura all'intervento dell'iniziativa di Dio, una impermeabilità dell'uomo all'Altro, un rifiuto di confrontarsi con l'Oggettivo. E anche questo è in discontinuità con la fede cristiana.

3.Il primato dell'azione. Una ulteriore documentazione dell'impostazione antropocentrica la possiamo vedere nel tema, sviluppato soprattutto nel primo umanesimo, del primato della vita attiva su quella contemplativa. Il Cristianesimo aveva certamente modificato il senso della contemplazione, rispetto alla cultura greca, in quanto il contemplato per eccellenza non era più concepito come un insieme di verità astratto-universali, oggetto della pura intelligenza, ma come Verità fattasi carne, presente in una concretezza storico-singolare. Aveva però mantenuto l'idea, già riconosciuta dai greci, che il primo compito della ragione umana sia quello di adeguarsi al reale, a ciò che realmente esiste, cioè sia quello, appunto, di contemplare; per cui solo in seguito si può progettare su ciò che è utile e fattibile. Si può parlare insomma, sia pur in diverse valenze, di un adeguamento all'oggettivo, sia per la grecità, sia per la cultura cristiano-medioevale. Prima di agire, prima di fare, occorre guardare, contemplare ciò che esiste, sia esso gradevole o no, appaia esso utile o no.

Vediamo ora affiorare una diversa impostazione, che in qualche modo anticipa il tipico attivismo moderno, cioè il primato dell'utile sul vero, l'affermarsi di un progetto pratico non fondato su un giudizio, su una certezza più grande che abbracci tutta la realtà, ma basato su conoscenze settoriali, analitiche. Il fondamento ultimo del progetto (/dei progetti) non sarà perciò la verità oggettiva e ultima, a cui ci si adegua; sarà invece la propria decisione, un colpo di reni della volontà circa il senso della vita e delle cose, privo di giustificazione conoscitiva, privo di supporto evidenziale-logico corrispondente.

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avvalli teologici

Questo processo di con “secolarizzazione” si intende il processo per cui l'umanità, dopo il Medioevo, ha pensato a sé stessa e alla realtà sempre più prescindendo da Dio, dalla trascendenza, dalla dimensione religiosa, sacralesecolarizzazione della concezione dell'uomo e della vita ricevette un oggettivo avvallo dalla stessa teologia cattolica dell'epoca, che non seppe recuperare il positivo delle istanze moderne dentro un orizzonte teocentrico, ma si lasciò trascinare dalla generale deriva della modernità egemone, verso approdi più o meno larvatamente naturalistici e razionalistici.

Ci riferiamo ad esempio alla teologia del già citato Gaetano, che impostò un dualismo tra natura e soprannaturale, a parole fedele a S.Tommaso, ma in realtà inoltrantesi in una direzione estraneo al maestro. Per il teologo di Gaeta occorreva infatti separare il fine ultimo soprannaturale, infinito, che solo la Rivelazione insegna, e di cui nella natura non vi sarebbe alcun bisogno, dal fine ultimo naturale, finito, che basterebbe ad appagare esaurientemente e senza residue nostalgie la sete di felicità iscritta nella natura umana. Il finito dunque ci basterebbe. Ciò che Dio ci offre, in Cristo, soprannaturalmente, è un di più, qualcosa di opzionale, di cui potremmo benissimo fare a meno senza soffrirne affatto. Sazio di un fine puramente naturale: ecco un tipo umano puramente naturale. Il che fa da corrispettivo teologico al naturalismo filosofico, che abbiamo visto affiorare nell'umanesimo antropocentrico.

Analoghe impostazioni potremmo trovare anche altri grandi teologi del '500/'600, come Domingo Banez (1528/1604), Bellarmino (1542/1621), Suarez (1548/1617), autori tutti che pongono una netta separazione tra l'ambito naturale e quello soprannaturale, affermando di fatto l'autosufficienza del primo.

3. La natura: opacità e spazio del nascondimento

«Allora si aprirono gli occhi di entrambi e si accorsero di essere nudi: intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l'uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio in mezzo agli alberi del giardino.» (Gn, 3, 7)

Accanto alla esaltazione dell'uomo come non-dipendente da Altro, l'umanesimo antropocentrico sviluppa il tema della natura non più come segno, trasparire dell'Altro, luogo del suo manifestarsi, epifania cosmica dell'Infinito, ma quale oggetto da manipolare, e come opacità greve, chiusa in se stessa. Si tratta di un discorso, che sarà compiutamente svolto dalla cultura filosofica del '600, ma che già affiora nel '500.

Alludiamo ad esempio alla tesi dell'infinità della natura, che si affaccia già con il Cusano. Di questo autore abbiamo già detto come non sia giusto classificarlo univocamente nel filone di una modernità antropocentrica. Di fatto però la sua cosmologia, che pur sembra anticipare con felice intuizione le con la negazione del geocentrismo, della circolarità delle orbite celesti, della differenza qualitativa tra le sostanze celesti e i quattro elementi terrestritesi portanti dell'astronomia scientifica moderna, assesta un colpo molto forte all'immagine medioevale del cosmo, lasciando aperta la strada a interpretazioni di segno anticristiano. In particolare l'idea di un cosmo infinito, che comunque egli non è univoco nell'affermare, mal si attaglia, al di là delle sue intenzioni, con l'idea cristiana del mondo naturale come segno, come “parola” carica di senso: perché qualcosa sia intelligibile occorre infatti che sia finito, senza contare che uno spazio infinito è psicologicamente connesso da un lato con un'idea di spreco possibile, per l'inesauribilità delle risorse disponibili, dall'altro con un'idea di nascondimento, a cui abbiamo alluso nell'esergo di questo paragrafo. Invece di essere, cioè, luogo di comunicazione, lo spazio della natura diventa fattore di separazione, di opacità impenetrabile, di mascheramento.

Giordano Bruno

Se in Cusano si può trovare una tendenza solo implicita in tal senso, in Giordano Bruno, che dice di rifarsi a lui, il sentimento del cosmo è chiaramente sganciato dal Cristianesimo: una “vivente natura infinita”, in cui Dio si esaurisce, essendone racchiuso senza residui, è troppo evidentemente panteistica, perché si possa nutrire qualche dubbio sull'intento del cioè Giordano Bruno, che era di NolaNolano.

Ma più ancora, una testimonianza del nuovo clima antropocentrico, nella sua volontà di dominio su una natura non più vista come cioè segno di Dio, “manifestatrice di Dio”teofanica, lo troviamo nel fiorire della magia, dell'alchimia e dell'astrologia tra '400 e '500: con esse il nuovo tipo umano antropocentrico intende acquisire una padronanza tendenzialmente totale sulla realtà fisica e le sue forze. Il che è evidente nel caso di magia e alchimia, che mirano direttamente a modificare la materia a proprio arbitrio, ma è vero anche nel caso dell'astrologia: le conoscenze che essa avrebbe permesso non erano considerate una pura curiosità speculativa, ma dovevano essere utilizzate ai fini dell'azione di successo. Basta scorrere alcune pagine delle opere dei cultori di tali scienze occulte per avvertire in loro una concezione non più cristiana, e non di rado anzi inclinante verso il satanismo.

Agrippa di Nettesheim

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Prosegui con l'umanesimo cristiano.