Cancellare il Medioevo filosofico?

Pubblicato su Per la filosofia (ed. Massimo, Milano), n.16 (anno VI), mag/ago 1989, pp. 52-61. Sono state tolte le note originali.


È abitudine diffusa nella scuola superiore italiana ridurre al minimo lo spazio dedicato alla filosofia medioevale: è più la norma che l'eccezione veder trattati quei mille anni di storia del pensiero nel ristretto margine di due, tre o al massimo quattro ore di lezione.

Già il fatto di saltare a piè pari un periodo di mille anni dovrebbe lasciare almeno un po' perplesso chiunque, anche non addetto ai lavori, fosse dotato, anche in misura minima, di senso della storia (oltre che, ovviamente, di buon senso). Ma la perplessità diventerebbe decisamente un grave sospetto allorché ci si chiedesse se quei mille anni non siano trascurati proprio per quel pregiudizio sul Medioevo, che condiziona ancora pesantemente l'approccio a tale civiltà.

Quali sono le motivazioni di chi nega alla filosofia medioevale il diritto di comparire con pari dignità a fianco di quella antica e di quella moderna e contemporanea? Esse si potrebbero ricondurre sostanzialmente a due: 1) la filosofia medioevale o non è filosofia (ma teologia) o si limita a ripetere tesi già elaborate dai classici; 2) quand'anche esistesse un, peraltro ristretto, nucleo di filosofia medioevale, esso non avrebbe poi avuto una incidenza sufficientemente rilevabile sulla filosofia successiva.

In questo intervento, che del resto non ha la minima pretesa di trattare organicamente il tema in esame, non pretendiamo di dire molto di nuovo, a livello di ricerca filologica, ma semmai cerchiamo di fornire, con un certo ordine, qualche spunto in una prospettiva prevalentemente didattica. Da un punto di vista filologico infatti si può ritenere che quanto andava detto è sostanzialmente già stato detto nella famosa disputa tra Bréhier e Gilson. Quest'ultimo ha dimostrato con decisiva quantità e qualità di argomenti l'esistenza di una filosofia medioevale irriducibile a quella greca.

1. Originalità medioevale

a) In generale: irriducibilità alla filosofia greca

1. Senza attardarci troppo, ricordiamo l'idea di Dio come Infinito di perfezione (idea evidentemente estranea alla mentalità greca, identificante infinità con imperfezione), come Personalità libera, come Creatore, come Provvidente al reale, fin nella sua concretezza contingente;

Se Dio è infinitamente perfetto, ne segue la piena sensatezza del mondo; la realtà è interamente dipendente dall'atto creatore dell'Infinito (idea di creazione), perciò il mondo, la vita non sono sottoposti a un cieco caso, a una ferrea necessità: tutto ciò che accade, accade perché lo vuole, o almeno lo permette, un Mistero buono che vuole bene all'uomo. Laddove nemmeno Zeus poteva infrangere la necessità del Fato, qui tutto è dentro un progetto buono.

Aumenta il senso del mistero, perché l'Infinito è infinitamente al di là della comprensione della ragione umana ("le Mie vie non sono le vostre vie"), ma al tempo stesso la familiarità della realtà: tutto è familiare, perché il Mistero è buono, infinitamente buono e tutto destina al bene di coloro che aderiscono a Lui (omnia cooperantur in bonum diligentibus Deum, Rm 8,28).

E' così fondato il concetto di Provvidenza, che si staglia dal fatalismo greco (si veda ad esempio il senso di inesorabilità del destino tragico di Edipo) o arabo (cfr. la Storia del terzo Calender, nella Mille e una notte). Non è già tutto scritto: il buon ladrone si pente negli ultimi istanti della sua vita (e il senso di tutta una vita cambia, negli ultimi istanti: che differenza da un Edipo la cui strada è inesorabilmente di dispiega, prima e contro la sua stessa volontà).

E ancora ricordiamo lo sviluppo di una riflessione su alcune categorie metafisiche, per esempio l'essere, l'essenza, la contingenza, la possibilità e la necessità, e su alcune tematiche, come le prove dell'esistenza di Dio ed il rapporto Dio-Mondo, che senza essere del tutto nuove rispetto alla filosofia classica, conoscono nel Medioevo un grado notevole di affinamento tecnico.

2. A livello antropologico-etico non è possibile ignorare la novità di idee come l'identità della natura umana. e l'eguaglianza tra gli uomini che ne consegue; la fondazione della personalità umana, come soggettività integrale (inscindibilità del corporeo dallo spirituale e ricerca di compimento per l'intero personale) dotata di valore e dignità infiniti in quanto rapporto con Dio, che ama infinitamente (cosa inconcepibile ai Greci) ogni persona umana, la possibilità di un rapporto intersoggettivo di autocomunicazione senza residui.

Una nuova concezione delle facoltà umane: non possiamo non ricordare che i medioevali furono maestri insuperati nell'arte dell'introspezione; le loro riflessioni sul rapporto tra l'anima e le sue potenze, sulle potenze conoscitive, dai sensi esterni al centro ineffabile, l'apex mentis, e ancora sul rapporto tra intelletto e volontà, superano di gran lunga, per quantità certamente, ma anche per profondità le analoghe riflessioni dei filosofi greci.

Quanto è non solo più realistica, ma anche più tecnicamente articolata, l'analisi dell'atto morale svolta dai medioevali rispetto a Platone e Aristotele! Si pensi solo alla sicura fondazione del libero arbitrio, alla distinzione tra libertas maior e libertas minor, ai concetti di legge morale, di obbligo e di dovere morale, di coscienza, di intenzione, di peccato, cose tutte di documentata origine cristiana. E ancora, per non limitarci che ad alcuni esempi, ,come non ricordare il notevole affinamento delle categorie logico-epistemologiche nell'arte del distinguere, sviluppata soprattutto dalla Scolastica?.

b) Irriducibilità di S. Agostino a Platone

Ma veniamo ad un esame più dettagliato. Prendiamo due esempi classici: le coppie Platone-Agostino e Aristotele-Tommaso. è abituale sentir ripetere che i due dottori cristiani non avrebbero fatto altro (a livello filosofico) che utilizzare le idee dei due filosofi greci, tutt'al più riverniciandole superfìcialmente.

1. Ma come si può vedere nel Dio di S. Agostino una semplice "concentrazione" e "personalizzazione" delle idee platoniche, se non commettendo una grossolana svista e una grottesca confusione? Come si può dire che il problema della creazione era "una questione molto dibattuta nel corso della tradizione platonica" e che la soluzione datane da S. Agostino era la "corretta risposta di un platonico, che sa ben applicare la distinzione stabilita per primo da Platone" tra tempo ed eternità?

Che S. Agostino debba molto a Platone e a Plotino non è più minimamente messo in dubbio (come del resto ogni filosofo deve molto, lo voglia o no, alla tradizione filosofica che lo precede), ma negare la sua originalità ci pare seriamente scorretto.

2. Il tema dell'interiorità poi presenta qualche affinità con le riflessioni del platonismo pagano, ma quanto è diverso l'orizzonte in S. Agostino! In Platone l'individuo è immerso senza residui nella polis, in Plotino le cose cambiano, è vero, nel senso di una possibile "fuga dell'uno verso l'Uno" (il che è comunque un influsso di quella diffusa religiosità in cui il pensiero ebraico-cristiano aveva la sua buona parte), manca però, e questo chiarifica il diverso senso dell'interiorità, l'idea di un rapporto integrale (comprensivo di tutto l'uomo) e personale (intenzionante un "tu" e non un "ciò") con l'Assoluto.

L'idea poi di illuminazione connessa a quella di interiorità ci pare del tutto irriducibile a quella di reminiscenza: al ricordo di realtà impersonali, condotto esclusivamente con le proprie forze, tutt'al più stimolate dal sensibile "esterno", si sostituisce in S.Agostino l'azione diretta e presente di una Persona, il Maestro interiore, al quale va attribuita la causalità primaria del retto pensare.

E nel concepire il nesso intelletto-volontà è forse S. Agostino semplicemente un platonico? Non si può onestamente disconoscere la grande differenza tra l'eros di Platone e l'amore di cui parla S. Agostino: il primo è interamente mosso ed esaurientemente saziato dalla conoscenza di quelle realtà impersonali che sono le idee. Laddove l'amore per S. Agostino in qualche modo precede la conoscenza concettuale e la orienta, scaturendo dalle più intime profondità dell'anima, per cui non si può, secondo il noto detto, conoscere perfettamente ciò che non si ama; né l'amore si sazia nella conoscenza di qualcosa, ma solo nell'amore stesso di Qualcuno, Dio, vivente Trinità di Persone.

3. Quanto al problema del male, è vero che, come si fa sin troppo notare, S. Agostino utilizza degli strumenti concettuali offertigli da Plotino. Non sempre si osserva un analogo zelo nei manuali scolastici nel rimarcare le pur non lievi differenze: l'identificazione del male col non-essere è funzionale, nel platonismo (antico e nuovo) a una soluzione ontologica del problema che svigorendo al massimo la consistenza/bontà della materia addita quale unica salvezza la fuga (intellettuale) verso le Idee o l'Uno; la soluzione agostiniana è imperniata invece sul male morale, che ha la sua origine nella libertà dell'uomo a cui pertanto è demandato il compito di estirpare il male, in un agire buono che aderisca al Bene che le si fa, per grazia, incontro prevenendola e sostenendola.

Nell'un caso dunque il male è fuori dall'uomo, è nella realtà, e va affrontato fuggendo da questa; nell'altro il male è nell'uomo e la sua soluzione è nel volgersi al Bene, creatore di ogni realtà.

4. La fondazione della certezza razionale, contro gli Accademici, il tema del libero arbitrio, la meditazione sul tempo e quella sulla storia sono infine dei motivi troppo evidentemente originali rispetto al pensiero ellenico, perché valga la pena parlarne qui. Tuttavia, anche qui, lo spazio che in genere gli insegnanti di filosofia dedicano loro è molto spesso spropositatamente ridotto.

c) Irriducibilità di S. Tommaso ad Aristotele

Ma se S. Agostino, a motivo di una sua distorta lettura che ne fa sovente un Lutero ante litteram e il precorritore di un fideismo più facilmente digeribile dalla cultura laicista di un corretto nesso Fede-Ragione, se S. Agostino, dicevamo, può ancora piacere, S.Tommaso e la sua organica sintesi risultano in genere meno graditi e più facilmente la presentazione del suo pensiero opera inaccettabili tagli. Nondimeno, non solo, come è più ovvio, la sua Weltanschauung, ma la sua stessa filosofia negli aspetti più tecnici differisce in misura non piccola da quella dello Stagirita.

1. Anzitutto a livello di metafisica va evidenziata la differenza che corre tra il porre come perfezione suprema la forma, come fa Aristotele, o l'essere l'actus essendi, come fa S. Tommaso.

In primo luogo l'impostazione tomista ne ricava un'attenzione e un spetto illimitati per l'esistente in quanto tale, che per fede sa essere stato creato "nel Verbo" (Gv, 1), laddove Aristotele in qualche modo seleziona il reale, non riuscendo a "salvare" e a significare adeguatamente quella fattualità contingente che non è riducibile alla necessità della forma.

In secondo luogo ne deriva che il mondo, per la metafisica tomista, è tempo stesso più reale e più contingente che per lo Stagirita: più reale perché pulsa in esso l'energia perfettiva dello esse ut actus, partecipazione dell'Ipsum Esse Subsistens, la Pienezza attualissima dell'essere, né esso può più configurarsi come uno scenario depotenziato delle pure forme; ma anche più contingente, poiché la sua esistenza è interamente sospesa al libero decreto di Dio, Totalità sussistente dell'Essere: la stessa intelaiatura intelligibile, che per Aristotele appartiene all'ordine dell'ente necessario, è per la metafisica di S. Tommaso contingente.

In terzo luogo l'Aquinate può quindi vantare una più radicale e spregiudicata impostazione, mentre il greco poteva al massimo parlare di una "meraviglia" di fronte all'esser-così del reale, il filosofo cristiano può fondare teoreticamente quell'originario "stupore" di fronte all'esserci del reale, che è la spinta più autentica e profonda al domandare filosofico.

Ancora, rispetto ad Aristotele, S. Tommaso sviluppa e perfeziona il tema dei trascendentali. Nella concezione aristotelica il reale, l'ente tende a sbriciolarsi in una molteplicità di significati, i cui quattro gruppi fondamentali sono, come è noto, l'ente come sostanza e accidenti, l'ente come potenza ed atto, l'ente kata symbebekos, e l'ente secondo il vero ed il falso. è poi vero che nella Metafisica si fa strada l'idea di un'analogia dell'essere, di cui è negata tanto la pura univocità quanto la pura equivocità; ma è altrettanto vero che, nonostante tutto, non è certo sull'essere in quanto trascendentale che si sofferma l'attenzione di Aristotele, bensì sui suoi diversi significati ed in particolare sulla sostanza. S. Tommaso ha nel Suo sistema una maggiore considerazione dell'unità del reale fondata sulla dottrina della creazione e sul concetto di analogia dell'essere che raccoglie tutto il finito dentro il Disegno unitario dell'Essere infìnito; e questo porta ad un più consistente sviluppo della tematica dei trascendentali. In termini ovviamente molto schematici si potrebbe dire che alla metafisica della sostanza (che poi sono le sostanze) si sostituisce una metafisica dell'essere, che pur nelle reali differenziazioni è analogicamente uno e dell'Uno parla.

Al tempo stesso che unitario, il mondo che emerge dalla metafisica tomista, pur senza l'accentuazione bonaventuriano-scotista, è un mondo in cui la concretezza individuale ha un maggior peso che in Aristotele. Al filosofo greco interessa l'universale, sia esso l'essenza o la legge; il filosofo cristiano, senza trascurare l'universale, è preoccupato di fondare il valore del singolare. Egli sa infatti per Fede che ogni singolare è voluto da Dio, o di più, che Dio stesso ha assunto la singolarità di un corpo e di una anima umana e si fa incontro all'uomo in una storia, che è fatta di eventi particolari, per salvare le particolari persone umane, che Egli ama di amore infìnito.

Ciò emerge ovviamente nella trattazione del rapporto Dio/mondo e della Provvidenza, estendentesi fino al concreto, a differenza che in Aristotele e nella filosofia greca nel suo insieme. Ma emerge anche nella stessa attenzione a un problema a cui spesso sfugge il significato tipicamente cristiano, cioè il problema del principium individuationis. Senza entrare nel merito della questione, rileviamo che tale significato ci pare proprio essere la preoccupazione di fondare il valore del singolare concreto, di cui parlavamo sopra.

Per ragioni di spazio ci limitiamo a segnalare soltanto l'opportunità di far rimarcare la differenza, che peraltro emerge con lampante evidenza tra il "primo Movente" aristotelico e l'Ipsum Esse Subsistens tommasiano, anche quanto alla dimostrazione della loro esistenza. A ben guardare le vie tomistiche segnano un progresso di precisione teoretica notevole rispetto agli argomenti portati da Aristotele nel libro Lambda della Metafisica.

2. Ancora solo un accenno per l'antropologia: il definitivo chiarimento dell'individualità dell'intelletto agente e la significativa introduzione di due importanti tematiche, estranee ad Aristotele: quella dell'autocoscienza (S. Th., I, q. 87) e quella della conoscenza per connaturalità, che integra il concetto, e la cui valorizzazione differenzia l'intellettualismo cristiano di Tommaso da ogni astratto razionalismo. Per l'Etica, infine, ricordiamo la solida fondazione del libero arbitrio. Il Fine ultimo poi non è certo identico nelle due concezioni pur trattandosi sempre di Dio; in Aristotele si tratta di un Dio finito, chiuso in sé, e contemplabile per sforzo dell'intelletto da pochi, in pochi momenti della vita presente; in Tommaso di Dio infinito che per libero decreto si comunica per grazia all'uomo integrale chiamandolo a partecipare eternamente alla sua vita beatissima.

Sempre riguardo all'etica: mentre per il greco la vita morale è una faccenda individuale, un calcolo dei modi per ottenere la massima felicità da un reale che è ultimamente impersonale, per il filosofo cristiano essa è rapporto dialogico con Chi "scruta i cuori e le menti", e al Quale si deve, dovendogli ontologicamente tutto, una incondizionata obbedienza. Dovere e felicità vengono così a coincidere.

Infine, per quanto concerne la politica, se è aristotelica (come formulazione tecnica, dato che il contenuto era già biblico) l'affermazione della naturalità delle società e dello stato, è tipicamente cristiana la problematico del rapporto tra regnum e sacerdotium.

2. Permanenza dell'influsso medioevale

Una volta appurato che il Medioevo filosofico non è la fotocopia del pensiero greco, non siamo che a metà del nostro compito. Si potrebbe infatti obiettare che i filosofi cristiano-medioevali furono sì originali, ma ormai non hanno più niente da dire, dal momento che la civiltà ha preso una direzione diametralmente opposta al loro teocentrismo; per cui, se non altro per ragioni di tempo, è meglio puntare su quei filosofi greci il cui pensiero meglio si confà alle moderne istanze antropocentriche.

Occorre dunque stabilire che la filosofia moderna e contemporanea, da cui nessuno può voler prescindere, è influenzata dal pensiero medioevale al punto che la sua comprensione non può che risultare gravemente lacunosa se da quello si prescinde. Vero è che molti filosofi moderni hanno detto di rinnegare la tradizione medioevale, chi per rifarsi agli antichi, come nel Rinascimento, chi per edificare ex novo la filosofia, come Cartesio. Resta da vedere se siano di fatto riusciti a tagliare ogni rapporto con la filosofia medioevale.

E il fatto di concepirsi contro di essa implica già un condizionante riferimento ad essa. Del resto i già ricordati Hegel e Comte non vedevano forse nel moderno una antitesi? E può forse una antitesi comprendersi a prescindere dalla tesi?

a) La soggettività

Più dettagliatamente la modalità con cui sono impostati i due fondamentali problemi della filosofia moderna, quello gnoseologico e quello politico, non si può comprendere che a partire da una certa idea di soggettività. Un'idea di centralità del soggetto sta infatti a monte di entrambi i problemi e tale idea, inaudita per la mentalità e per la filosofia ellenica, fu introdotta proprio dal Cristianesimo e sviluppata dalla filosofia medioevale.

L'uomo cessa di guardare a sé stesso come un ente naturale, come una "cosa tra le cose" (tema sviluppato a fondo da parecchi filosofi contemporanei, a partire da Hegel) e diventa consapevole della sua irriducibile specificità di soggetto autocosciente e progettante proprio in virtù della rivoluzione intellettuale operata dalla Rivelazione cristiana.

Certo, da un punto di vista (genericamente parlando) immanentistico, non si tratta che di un inizio, il cui compimento sarebbe poi toccato alla filosofia moderna e contemporanea: ma di un inizio ben importante, di un salto qualitativo non eludibile, si tratta comunque.

è con il Cristianesimo che l'uomo prende coscienza della sua infinita dignità, e della sua superiorità di fronte al cosmo naturale, che viene spogliato di quei caratteri sacrali, ora attribuiti al Trascendente soltanto, e che viene piuttosto concepito come assoggettato all'uomo, e creato per il suo bene. Ed è da questa coscienza della centralità del soggetto, pur intesa in modo deformato rispetto al Cristianesimo tradizionale, che prendono l'avvio, dicevamo, quelle due essenziali problematiche, quella gnoseologica e quella politica.

b) Soggettività e conoscenza

1. La messa in discussione del valore della conoscenza, come hanno ben visto tutti i più autorevoli interpreti della modernità, da Hegel a Maritain, muove proprio dal superamento di una "ingenua" fiducia nell'oggettivo a partire da una accentuata conoscenza di sé, che nel filone "laico" giunge a porre la propria misura come discriminante di ogni certo, ma che in ogni caso esige un paragone serrato con la propria soggettività.

Già Protagora, si obietterà, aveva affermato qualche cosa di analogo; il suo comunque, oltre che essere un episodio isolato e, per così dire, quantitativamente irrilevante nell'insieme del pensiero greco, è pur qualitativamente di altro tipo dal soggettivismo moderno. Rispetto al suo, ci pare, quest'ultimo persegue un progetto positivo, costruttivo e ricostruttivo, di ampio respiro, anzi di portata radicale, laddove la Sofistica, come pure lo Scetticismo antico hanno un carattere essenzialmente critico-negativo. E donde viene questo "di più" moderno, se non dalla nuova autocoscienza data all'uomo proprio dal Cristianesimo?

L'uomo moderno dunque indaga sul valore della sua conoscenza in virtù di una nuova autocoscienza, e cioè in vista di prendere fino in fondo la propria esistenza, individuale e sociale nelle proprie mani, in vista di possedersi, per così dire, e di non essere più in balia di un oggettivo a lui estraneo. Sia poi che trovi questo possesso di sé in sé stesso, come nel filone "laico" delle modernità, sia che lo trovi nell'Altro, come nel filone Cristiano.

Nel primo caso, che è, come noto, il caso della corrente di fatto egemone, al punto tale da essersi potuto presentare a lungo come l'unica, si cercherà di prendere le distanze da quella concezione cristiana che sottomette "ancora" il soggetto umano all'Oggettività del Trascendente. Si finirà anzi coi confonderla in qualche modo con la visione ellenica: che sia al cosmo o a Dio è sempre a qualcosa di altro che ci si conforma e assoggetta. Resta nondimeno vero, per quella stessa prospettiva laica, che senza la tappa intermedia della cultura cristiano-medioevale, imperniata sulla Soggettività Trascendentale, non si sarebbe potuto compiere il passaggio dalla oggettività immanente degli antichi alla immanente soggettività dei moderni.

Se poi volessimo cercare una verifica più analitica di questo assunto molto generale non faticheremmo a constatare che buona parte dello strumentario concettuale di cui si avvale la gnoseologia moderna le viene, neanche troppo indirettamente, dalla elaborazione della scolastica.

Da un punto di vista didattico, comunque, andrebbe sottolineato il legame tra la problematico delle idee, svolta tanto dai nazionalisti quanto dagli empiristi, sia quanto alla loro origine (innatismo/empirismo), sia quanto alla loro portata (universalità/particolarità) sia quanto alla loro natura (quod o quo), la riflessione su tali tematiche sviluppata dalla Scolastica.

è stato il Medioevo, con le sue approfondite discussioni sul tempo degli universali, sul tema dell'astrazione e della vita dell'intelligenza, sul tema dell'intenzionalità, a preparare il terreno alle indagini gnoseologiche dei moderni, ben più che non la filosofia greca. Ciò che in Platone ed in Aristotele era semplicemente un abbozzo frammentario, per quanto geniale, nei medioevali è diventato, con minor creatività forse, ma con una testarda perseveranza che non è rimasta senza frutti, riflessione organicamente articolata e sistematicità implacabilmente completa.

E, ancora, è forse poco importante il ruolo rivestito da Dio nella gnoseologia moderna, soprattutto ma non esclusivamente, nel razionalismo? E si trova nella filosofia greca un antecedente a tale concezione? E le prove dell'esistenza di Dio sono qualcosa di marginale nella filosofia moderna? Si negherà forse che, nella loro elaborazione, è ben maggiore il debito verso il Medioevo che verso il pensiero ellenico?

2. Inoltre non si potrà disconoscere il debito dell'empirismo moderno verso il nominalismo medioevale nella modalità con cui quello si è espresso. Notevole come è noto, è stato pure l'influsso del volontarismo medioevale, tanto su Lutero quanto su Cartesio, due figure non certo secondarie della cultura moderna.

Si obietterà che nominalismo e volontarismo sono stati fenomeni marginali nella storia della filosofia medioevale, cosa che concederemo più per il primo che per il secondo; sta di fatto che, se tali soluzioni furono minoritarie, i problemi a cui rispondevano furono tipici della filosofia medioevale, e in tale tipicità, per quanto mascherata, continuarono ad agire e ad influenzare la filosofia moderna.

Non riusciamo ad immaginare come sarebbe sostenibile dire che il volontarismo sia stato un prodotto della filosofia greca. E, d'altra parte, nemmeno riusciamo a scorgere, come sarebbe possibile negare alle categorie di azione, attivismo, un posto più che considerevole nella filosofia moderna: tali categorie sarebbero dunque sorte dal nulla o non troverebbero piuttosto la loro radice nel volontarismo bassomedioevale?

3. Un altro tema, non solo trascurato ma sovente distorto, è quello relativo alla scienza. Ci si sofferma infatti sugli ostacoli che gli ecclesiastici posero alla rivoluzione scientifica, enfatizzando il processo a Galileo. E si dimentica d'altro canto il fatto ben più fondamentale, che l'idea di una manipolazione della natura, che è se non l'intenzione consapevole di ogni singolo scienziato, almeno l'humus culturale entro cui storicamente si è potuta sviluppare la scienza, è inscindibilmente connessa alla già accennata desacralizzazione del cosmo naturale, la quale a sua volta è di indubbia origine biblicocristiana.

4. Non possiamo che limitarci a degli accenni, dato il carattere del presente contributo, ma dobbiamo almeno brevemente ricordare che la vicenda filosofica moderna presenta delle troppo evidenti e strutturali analogie con la vicenda teologica a lei contemporanea perché si possa pensare a un casuale parallelismo. Alludiamo ad esempio alla buona armonia tra razionalismo filosofico con la sua tendenza ad espungere il mistero dallo scibile (e dal reale), e il razionalismo teologico cattolico, animato da un simile benché meno radicale orientamento: o, ancora, al felice accordo tra naturalismo filosofico, con la sua idea di autonomia-autosuflìcienza della natura e delle sue energie, e la teologia della "natura pura", prevalsa nel cattolicesimo moderno propensa a concepire l'ordine naturale come in sé compiuto.

Ora, se non è dubbio che il filosofìco abbia influito sul teologico, ci pare almeno altrettanto verosimile ritenere che anche la teologia abbia influito sul ,corso della vicenda del pensiero "profano". E, ancora una volta, la teologia moderna non può essere adeguatamente compresa se si prescinde dall'intelligenza che del Cristianesimo ebbero gli autori medioevali.

c) La storia e la filosofia politica

Il tema politico infine è stato a sua volta largamente determinato dalle idee cristiano-medioevali. Anzitutto è indiscutibilmente di origine cristiana l'idea di storia quale abbiamo noi oggi; né i greci né alcuna civiltà extraeuropea può vantare una simile concezione. L'idea di un progresso storico poi non può essere certo ritenuta secondaria nella filosofia e nella cultura postmedioevale, e da Herder e Lessing in poi essa è intimamente connessa alla riflessione politica, che appunto da tali pensatori si è sviluppata nel senso di una radicale riprogettazione dell'umano convivere, idea che è nettamente innovativa rispetto al pensiero greco. La stessa utopia platonica infatti rimane ancorata, nonostante tutto, all'oggettività determinata dal finito, mentre i progetti contemporanei sono animati da un anelito per così dire infinitistico, di globale riplasmazione del reale da parte di una soggettività capace di autodeificarsi (ci si passi il termine).

3. Conclusione

Quanto abbiamo detto è poco, da un punto di vista filologico, ma sufficiente, pensiamo, a sollecitare una riflessione in ordine all'insegnamento della filosofia, che riteniamo quanto mai opportuna.

Ignorare il Medioevo non è cosa buona e speriamo di aver dato almeno qualche spunto che possa convincere di ciò. Aggiungiamo solo che, se da un punto di vista cristiano esso dovrebbe essere oggetto di una attenzione particolarmente cordiale, anche da un punto di vista "laico" ci pare indizio di onestà intellettuale il non ignorare un pensiero così decisivo per la filosofia successiva, mentre sarebbe una grave meschinità, se non addirittura una censura di tipo freudiano, chiudere gli occhi di fronte ad esso.

Non si dica che è questione di tempo, la verità è un'altra. Se si vuole, sì può benissimo svolgere la filosofia greca dapprima e quella moderna poi in un arco di tempo più ridotto di quello attualmente dedicato loro senza tralasciare niente di davvero importante. Dipende solo dalla competenza di chi insegna; quanto meglio si conosce un argomento, tanto più si è capaci di sintetizzarlo senza impoverirlo.

Crediamo che su questo punto varrebbe la pena intraprendere un serio esame di coscienza. In ogni caso sarebbe quantomeno auspicabile incominciare un approfondito dibattito sul problema.