Anselmo d'Aosta

la razionalità delle fede

importanza

La sua opera svetta nel panorama dell'XI, e costituisce un tentativo di sintesi tra l'istanza di valorizzazione della ragione, maldestramente estremizzata dai dialettici, e il primato della fede, sottolineato in maniera un po' troppo esclusiva da Pier Damiani.

🪪 Cenni sulla vita

Anselmo d'Aosta nasce ad Aosta nel 1033 (o 1034), da una famiglia nobile. Diviene monaco, e poi (nel 1078) abate nel monastero di Le Bec. Per le sue doti fu fatto arcivescovo di Canterbury (1093), succedendo al maestro, Lanfranco. In tale veste si adoperò, nel contesto della lotta per le investiture, per assicurare alla Chiesa la massima autonomia possibile.

La sua produzione filosofica si concentra soprattutto negli anni di insegnamento a Le Bec.

Morì nel 1109, a Canterbury. Anselmo venne proclamato santo nel 1163, e riconosciuto come “dottore della Chiesa” nel 1720 da papa Clemente XI.

📔 Opere principali di Anselmo d'Aosta

titolo originale titolo ital. (o edizione) anno
Monologion [in genere non tradotto]1076
Proslogion [in genere non tradotto]1078
De veritate Sula verità1085
De grammatica Sulla grammatica1085
De casu diaboli La caduta del diavolo1085
Cur Deus homo Perché Dio si è fatto Uomo1098

pensiero: il rapporto fede/ragione

Concepì al contempo una distanza e una armonia tra le due supreme fonti di conoscenza che l'uomo ha, in questa vita. Da un lato la fede è l'unico assoluto conoscitivo reale per l'uomo concreto, cioè per l'uomo nella sua condizione di fatto. Dall'altro la ragione è una facoltà che va pienamente attivata e valorizzata, cercando di capire, per quanto possibile - il più possibile, quanto la fede rivela.

Le formule celebri che esprimono tale atteggiamento, già presenti anche in S.Agostino, del resto, sono: fides quaerens intellectum e intellectus quaerens fidem (o anche intelligo ut credam e credo ut intelligam). Da un lato cioè la fede cerca l'intelligenza, non può non rendere ragione di ciò che crede, non può non cercare nella ragione una conferma di sé; dall'altro la ragione ha bisogno della fede, per poter capire fino in fondo le occorre la fede, senza cui la realtà resterebbe un ultimo enigma, al limite dell'assurdo.

le coordinate del rapporto fede/ragione in S.Anselmo
intellectus quaerens fidem credo ut intelligam la ragione non è autosufficiente: deve rivolgersi alla fede per avere la spiegazione ultima dell'enigma della realtà
fides quaerens intellectum intelligo ut credam ma chi crede non azzera la ragione, anzi la valorizza fino in fondo cercando il più possibile di rendersi "ragione della propria fede", senza poterla però "dimostrare"

le prove razionali dell'esistenza di Dio

il Monologion

la prova a-posteriori dell'esistenza di Dio

Anselmo elabora una prima serie di prove nell'opera che si intitola Monologion. Il tratto comune di queste prove è l'esistenza di una gerarchia di perfezioni, che la ragione coglie nella realtà del mondo sensibile. Una pianta è più perfetta di una pietra, un atto di coraggio lo è più di un atto di viltà.

Ora, in base a che cosa possiamo giudicare una cosa più perfetta di un'altra? Dove desumiamo il criterio che ci permette di operare quella che è una inevitabile, anzi essenziale, componente del nostro modo di conoscere, ossia il paragonare le diverse cose?

Se possiamo giudicare del più e del meno, argomenta A., è perché abbiamo presente qualcosa che sia massimo, cioè insuperabile in quell'ordine. Se esiste un più o meno buono, un più o meno giusto, è perché esiste un massimamente buono, un massimamente giusto. Cioè qualcosa che sia buono e giusto in modo assoluto e insuperabile.

Ma per poter essere assolutamente e insuperabilmente perfetto, qualcosa deve essere infinito: se non lo fosse, potrebbe essere superato da qualcosa.

Dunque esiste un massimamente perfetto, che è infinitamente perfetto: ed è appunto ciò che diciamo Dio, l'Essere Infinito e infinitamente perfetto.

il Proslogion

la prova a-priori dell'esistenza di Dio

Quella del Proslogion è una prova detta a priori. [Le citazioni che seguono sono tratte da Medioevo filosofico] Si traduce spesso tale espressione come "prescindente dal dato sensibile", ma bisognerebbe purificare tale spiegazione da un inquinante riferimento al kantismo: (...) non esiste un disprezzo o una diffidenza nei confronti del sensibile in quanto tale. Il mondo corporeo, sensibile è stato creato da Dio, e Dio ha visto "che era cosa buona". Prova a-priori quindi non significa una prova che escluda il sensibile, quanto una prova che si impernia sulle evidenze che si presentano (che ineriscono) allo spirito umano, sulle evidenze che è strutturalmente impossibile negare, e il cui valore non è smentibile da qualsivoglia esperienza. Comunque si giudichino le prove a-priori è bene non dimenticare perciò il loro riferimento una concezione realistica della conoscenza: esse fanno appello non ad una ragione come "scatola chiusa", ma ad una ragione come aperta alla realtà, e nella fattispecie la realtà su cui la ragione fa leva è la realtà dello spirito, cioè la realtà del soggetto umano.

Richiamiamo le linee essenziali dell'argomento di S.Anselmo.

1. Vi è nello spirito umano, nello spirito di ogni uomo, un'idea, una conoscenza originaria e incancellabile, quella dell'Id quo maius cogitari nequit, Ciò di cui non si può pensare niente di più grande, cioè l'idea di Dio, la conoscenza di Dio.

Chi, come il suo avversario il monaco Gaunilone nel Liber pro insipiente, volesse negare questa presenza, secondo Anselmo, si contraddirebbe. Infatti come si può negare di avere l'idea di Dio, senza sapere ciò che si nega? Ma sapere ciò che si nega vuol dire precisamente avere l'idea di ciò che si nega, cioè avere l'idea di Dio, dell'Id quo maius cogitari nequit. Anche chi nega Dio, anche l'ateo, deve sapere chi è ciò che nega. Dunque tutti hanno tale idea, tale idea è strutturale ad ogni mente umana, ad ogni uomo.

2. Tale idea di Dio non ci dice semplicemente (ovviamente in modo imperfetto) che cos'è Dio, ma ci dice anche che Dio è. Ci attesta la Sua esistenza, al tempo stesso che ci dice qualcosa della sua essenza. Come un raggio di luce che entri in una stanza, ci dice sia qualcosa di che cos'è la luce, sia che la fonte della luce esiste.

Infatti l'id quo maius, l'Essere perfettissimo, per essere tale (per essere pensato) non può essere pensato come non esistente: deve infatti essere insuperabile (altrimenti non sarebbe perfettissimo, non sarebbe l'Id quo maius cogitari nequit); ma sarebbe superabile se fosse un Essere perfettissimo che avesse tutte le perfezioni, fuorché l'esistere; sarebbe superabile, cioè da un Essere perfettissimo, che oltre ad avere tutte le perfezioni (dell'essenza), avesse anche la perfezione di esistere. Detto in termini algebrici affermare che l'Id quo maius non esista sarebbe come dire: X+1>X (dove x=tutte le perfezioni essenziali, ossia la infinita bontà, la infinita conoscenza, la infinita conoscenza, etc.; e 1=la perfezione consistente nell'esistere); ma è impossibile che X+1>X, se abbiamo assunto che X è assolutamente massimo, è ciò che di più grande esiste, l'Id quo maius, il maximus. Dunque Dio esiste.

3. All’obiezione di Gaunilone, che osservava come allora potremmo dire di avere l'idea delle isole beate, e da tale idea trarre la conclusione, evidentemente infondata, che le isole beate esistono, Anselmo replicava che il caso dell'idea di Dio è assolutamente unico, e non ha paragone con alcuna altra idea. Solo dell'Essere perfettissimo si può dire che la sua esistenza è inclusa nell'essenza: per ogni "altro" ente ciò non vale.

La prova a-priori ha avuto successo anche presso filosofi come Cartesio, Leibniz ed Hegel, che si sono allontanati dalla weltanschaung cristiano-medioevale. Nondimeno tali pensatori hanno concepito anche in termini teoretici in modo diverso dai medioevali la prova ontologica: fondamentalmente la differenza sta nel fatto che mentre per questi ultimi l'idea di Dio era qualcosa di non oggettivabile, uno sfondo onniavvolgente che permea la conoscenza mentale senza poter essere afferrato in modo esaustivo, senza poter essere incapsulata in un concetto collocabile accanto ad altri, ma sovrastando ogni concetto, nei citati pensatori moderni l'idea di Dio viene ridotta ad una delle tante idee, su cui la ragione esercita un potere di comprensione e di manipolazione.

Quanto appena ricordato va tenuto presente se si vuole avvicinarsi al significato che per i medioevali aveva la prova a-priori. Essa non significa un possesso conoscitivo dell'Infinito, né una affermazione di autosufficienza del pensiero nei confronti del mondo sensibile e dell'oggettività dei rapporti umani come veicolo essenziale per incontrare l'Infinito. Ci sembra piuttosto che la prova ontologica, per quanto possa suscitare dubbi e perplessità abbia il senso di evidenziare i seguenti punti:

1) la conoscenza umana non è dispersa frammentarietà di sensazioni e pensieri, fluttuanti nel vuoto, ma si riannoda attorno a un Centro, che non può essere che l'Infinito e l'Eterno;

  • Ciò è agli antipodi del concetto di mente come teatro di cui avrebbe parlato Hume, agli antipodi cioè di una polverizzazione, di una disintegrazione della conoscenza umana in un caos di atomi conoscitivi.
  • Ma è anche qualcosa di più di quanto poteva ammettere Aristotele, che pure raccoglieva in unità gli aspetti conoscibili del "mondo esterno", riannodandoli attorno ai tanti centri, ai tanti nuclei delle sostanze: il filosofo greco infatti lasciava sullo sfondo l'unità del soggetto umano, che invece la presenza dell'idea di Dio, ovvero il suo essere immagine di Dio, fonda appieno.

2) l'uomo, parallelamente, è proteso verso tale Realtà (lo stesso Tommaso d'Aquino, che pure rifiuta la prova ontologica nella sua valenza conoscitiva, le riconosce in qualche modo una valenza sul piano del desiderio);

3) tale protensione è appunto una molla verso una pienezza, che l'uomo non possiede di suo, escludendo perciò un possesso già attuato. In questo senso la dimostrabilità a-priori di Dio non va vista come esclusiva di un incontro storico, concreto, visibile; non va cioè vista come fattore di ripiegamento su di sé, di intimistico soggettivismo.

Perché un Dio uomo?

Il motivo dell'incarnazione del Verbo

Anche affrontando questo tema, teologico, Anselmo mostra di voler cercare il più possibile le ragioni della fede.

Se Dio si è fatto Uomo, in Cristo, ci deve essere una ragione. Ed essa è la necessità di soddisfare la giustizia, violata infinitamente nel peccato originale da Adamo ed Eva, e riparabile soltanto da un atto infinitamente riparatore.

Quale appunto è stato, e poteva solo essere, quello operato dallo stesso Infinito, a Cui conveniva pertanto unirsi alla natura umana, diventare cioè Uomo, per poter riparare al peccato di Adamo.

Per un giudizio

Apprezzabile ci sembra l'affermazione della armonia tra fede e ragione. Non del tutto condivisibile la modalità con cui Anselmo cerca di illustrare tale armonia, spingendosi un po' troppo in là nella ricerca della dimostrabilità razionale di quanto la fede crede. Ad esempio la spiegazione giuridica dell'Incarnazione non appare del tutto soddisfacente, e rischia di lasciare in secondo piano quella che è comunque una dimensione essenziale di tale Fatto, ossia la sua gratuità e imprevedibilità.

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