Platone, il metodo

Nota bene

Nel dialogo platonico permane l'elemento socratico dell'ironia: come *finzione di ignoranza e soprattutto come *assunzione di idee e metodo dell'avversario, per mostrare la assurdità delle sue tesi. Secondo Giovanni Reale in proposito molti interpreti di Platone non hanno tenuto adeguatamente conto della andatura ironica del discorso platonico.

il dialogo come diffidenza dalla scrittura

Nel brano seguente Platone spiega (mettendole in bocca a Socrate) le ragioni della sua diffidenza verso il testo scritto. Tali ragioni stanno alla base della sua scelta del dialogo come forma espositiva più vicina al discorso parlato, vivo

Perché ciò, o Fedro, han di strano la scrittura, e, come veramente simile ad essa, la pittura. E infatti le immagini di questa ci stanno innanzi come viventi, ma se si domanda loro qualcosa, dignitosamente se ne stanno zitte zitte. Il medesimo è dei discorsi. Crederesti che essi parlino esprimendo un pensiero, ma se fai loro qualche domanda mosso dal desiderio di capire, annunziano soltanto una cosa, la stessa sempre. Una volta, poi, che sia scritto, il discorso rotola per ogni luogo, rimanendo in tutto il medesimo fra coloro che se ne intendono, come parimenti fra coloro a cui è estraneo, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli si fa torto e viene non giustamente biasimato, ha sempre bisogno dell'aiuto del padre; poiché egli non può difendersi e aiutarsi da sé.

(Fedro, 275, d-e)

il dialogo come importanza di un rapporto vivo

Il ricorso al dialogo evidenzia anche un altro aspetto della concezione platonica della verità: il suo essere data solo in un rapporto.

Riportiamo in proposito una bella definizione di verità data da Platone. Alla maniera di Socrate, simbolo della filosofia, Platone definisce "la verità" come "opera di uomini che a)vivono insieme e b)discutono con benevolenza".

a) la verità è opera di uomini che vivono insieme: non è solitaria (benchè non è detto che l'ambito comune debba essere la polis, il "si dice" anonimo e violento) ma comunionale;
b) discutono con benevolenza (ἐν εὐμενέσιν ἐλέγχοις) rischiano di mettere in comune con sincerità e serietà (c'è un modo di scherzare sulle cose che è vigliaccheria, assenza di impegno) quello che percepiscono; ma con benevolenza, non impositivamente.

il mito

Platone in un primo tempo, seguendo Socrate, rifiutò il mito. Successivamente però lo rivalutò e ne face largo uso nei suoi dialoghi.

Celebri ad esempio il mito della Caverna, quello del carro alato, quello di Er, quello di androgino.

L'uso del mito in Platone è stato variamente interpretato e valutato. Riportiamo due famose valutazioni, quella di Hegel e quella di Heidegger.

valutazioni del mito

secondo Hegel

esso segna l'impotenza del logos, costretto a ricorrere a forme sensibili. Hegel scriveva in proposito:

Il mito è una forma di esposizione che, in quanto più antica, suscita sempre immagini sensibili che sono adatte per la rappresentazione, non per il pensiero; ma questo attesta I'impotenza del pensiero, che non sa ancora reggersi di per sé, e quindi non è ancora pensiero libero. Il mito fa parte della pedagogia del genere umano, poiché eccita ed attrae ad occuparsi del contenuto, ma siccome in esso il pensiero è contaminato da forme sensibili, non può esprimere ciò che vuole esprimere il pensiero. Quando il concetto si è fatto maturo, non ha più bisogno di miti.

Dunque, il mito platonico apparterrebbe alla forma esteriore e alla rappresentazione; dal mito andrebbe sempre sceverato il concetto filosofico, che col mito si mescola solo perché ancora in parte non maturo. Pertanto il mito in Platone avrebbe un valore (filosoficamente) negativo.

secondo Heidegger

Il mito platonico per Heidegger segna invece un superamento fecondo del logos, incapace di "spiegare la vita".
La Scuola di Heidegger ha infatti additato nel mito la più autentica espressione della metafisica platonica: il logos, che pur campeggia nella teoria delle Idee, si rivela capace di cogliere I'essere, ma incapace di spiegare la vita: il mito viene in soccorso proprio per spiegare la vita, e, in certo senso, supera il logos e si fa mito-logia.

l'autointerpretazione di Platone

Egli ammoniva a non prendere alla lettera il mito, senza d'altra parte svuotarlo di significato:

Certamente, sostenere che le cose siano veramente così come io le ho esposte, non si conviene ad un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che è risultato che l'anima è immortale: ebbene, questo mi pare che si convenga e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello (καλὸς γὰρ ὁ κίνδυνος)! E bisogna che, con queste credenze, noi facciamo l'incantesimo a noi medesimi: ed è per questo che io da un pezzo protraggo il mio mito.

(Fedone, 114 d)

Per un giudizio

Di certo il mito non significa una abdicazione della ragione: non si tratta di un ritorno al mito prefilosofico, in cui la fantasia assumeva la funzione esplicativa principale. Significa piuttosto che la ragione, pur desiderando una spiegazione totale, e pur essendovi totalmente impegnata con tutte le sue energie, non la può trovare da sola. Insomma il mito platonico evidenza la presenza in Platone del senso del mistero, contro ogni pretesa razionalistica di ridurre la realtà a ciò che è comprensibile razionalmente. Perciò Hegel avversava tanto il mito, distruggendo questi la sua pretesa panlogistica.

Perciò, ancora, è più vicino alla verità cristiana il mito, per la sua implicita ammissione che la ragione deve aprirsi a un fattore non esaurientemente da lei possedibile, che non la superba pretesa hegeliana di spiegare tutto con la ragione.