Pascal e Santa Teresina

Un breve confronto

Può essere interessante paragonare l’immagine della canna pensante pascaliana con un pensiero di Santa Teresa di Lisieux. Questa scrive: “Che importa alla piccola canna se deve piegarsi? Non ha paura di rompersi perché è stata piantata in riva alle acque [cfr. Sal 1: “e sarà come albero piantato sulle rive del fiume”]. Quando si piega, invece di andare a toccare la terra, non incontra altro che un’onda salutare che la fortifica e suscita in lei il desiderio di nuove tempeste. È la sua debolezza che costituisce tutta la sua forza. Non potrebbe spezzarsi mai perché, in qualunque cosa le accada non vede altro che la dolce mano del Signore

Non si trova, nelle parole della santa carmelitana, la drammatica sottolineatura pascaliana della possibilità che la canna si spezzi, al cospetto di una natura fredda e indifferente nella sua immensa opacità. L'’umanità vista da Pascal ha paura, e proprio nel riconoscimento di tale paura, non più censurata e soffocata nel divertissement, sta il punto di partenza per l'’accettazione della Rivelazione; la piccola Teresa dice invece che la canna “non ha paura di rompersi”, e tutto, nelle sue parole, dice di un abbandono fiducioso anche in mezzo alla “tempesta” della sofferenza e della prova.

È vero: Pascal parla da filosofo, o almeno da apologista, facendo leva sulla ragione e sull’e esperienza naturali; egli non può presupporre la fede, perché è precisamente a tale meta che deve condurre chi ancora ne è lontano. Mentre la santa della piccola via non solo presuppone la fede, ma ne è inondata fin nel midollo, al punto che separarsene anche solo per un attimo le apparirebbe impensabile.

Tuttavia ci sembra innegabile una differenza di clima tra i due grandi cristiani: per Pascal non si può non avvertire il brivido vertiginoso della possibilità che la natura, non vista come segno del Mistero, ma come massiccia e anonima macchina, schiacci senza sforzo (“una sola goccia”, basta) l'uomo, azzerandone in un istante la vita, una vita forse senza senso. Prima di arrivare a dire che la sofferenza ha un senso occorre attraversare l’'angoscioso Getsemani dell'’apparente silenzio di Dio, ora che la natura non parla più di Lui e l'uomo è apparentemente solo con il suo dramma. Anzi dal Getsemani in un certo senso non si esce mai. Finché dura questo mondo. Per Teresa invece la sofferenza non ha niente di tragico. La vita è sì drammatica, perché interpella di continuo la libertà dell'’uomo, ma nemmeno per un secondo Dio lascia la sua piccola creatura priva il Suo sguardo. Pur soffrendo, perciò, l'uomo non è solo: la canna che egli è può piegarsi per la tempesta, ma non tocca la terra della propria miseria, incontra invece la corrente della Grazia divina, “l’onda salutare” della Iniziativa misericordiosa e ricreatrice di Dio, che forse non avrebbe incontrato se fosse rimasta impettita nella rettilinea rigidità della sua bontà naturale. E anche qui, notiamo, c’è una certa differenza dall’'inconsolabile rimpianto pascaliano per l’esilio a cui il Re è costretto, dopo la perdita dell’'integrità naturale originaria.