S.Agostino, testi

la storia in S.Agostino

senso del De civitate Dei

"Nel frattempo Roma fu distrutta sotto i colpi dell'invasione dei Goti condotti dal re Alarico, e fu un grande disastro. Gli adoratori di una moltitudine di falsi dei, che di solito chiamiamo pagani, si sforzarono di far ricadere questo disastro sulla religione cristiana e si misero a bestemmiare il vero Dio con più asprezza e acredine del solito. Perciò, divorato dallo "zelo per la casa di Dio", decisi di scrivere contro le loro bestemmie o i loro errori i libri de La Città di Dio. Quest'opera mi occupò per parecchi anni, perché si presentarono molte altre incombenze che non si addiceva differire, e la loro soluzione reclamava subito ogni mia cura. Quanto a questa grande opera de La Città di Dio, fu infine compiuta in ventidue libri. Di questi libri, i primi cinque confutano quelli che vedono nel culto degli dei falsi, abitualmente onorati dai pagani, la condizione necessaria alla prosperità delle faccende umane e che pretendono di trovare nell'interdizione di questo culto la spiegazione della nascita e dell'accrescimento dei mali attuali. I cinque seguenti sono diretti contro coloro i quali, pur confessando che tali mali non sono mai mancati e non mancheranno mai ai mortali e che, ora grandi ora piccoli, essi variano secondo i luoghi, i tempi e le persone, dichiarano nondimeno utile il culto degli dei falsi, unicamente ai sacrifici che si offrono loro, a cagione della vita che deve seguire la morte. In questi dieci libri si trovano dunque confutate queste due opinioni vane e contrarie alla religione cristiana.

Ma perché non ci si accusi di avere soltanto combattuto le dottrine degli altri senza avere esposto le nostre, vi è questa esposizione, contenuta nella seconda parte di quest'opera, che è racchiusa in dodici libri. Tuttavia, ove ce ne sia bisogno, noi affermiamo le opinioni che sono nostre anche nei primi dieci libri e confutiamo quelle altrui negli ultimi dodici. Dei dodici libri finali, dunque, i primi quattro trattano dell'origine delle due città, di cui l'una è la città di Dio, l'altra la città di questo mondo. I quattro seguenti descrivono i loro progressi e i loro sviluppi. Gli altri, che sono anche gli ultimi, mostrano i destini che spettano loro. Cosi, tutti questi ventidue libri hanno per tema l'una e l'altra città; ma hanno tratto il loro titolo dalla migliore e sono chiamati di preferenza La Città di Dio.

(AGOSTINO, Retractationes 2, 43)

città terrena e città celeste si oppongono per la loro origine

Due amori quindi hanno costruito due città: l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l'amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. In ultima analisi, quella trova la gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria più grande è Dio, testimone della coscienza. Quella solleva il capo nella sua gloria, questa dice al suo Dio: Tu sei mia gloria e sollevi il mio capo. L'una, nei suoi capi e nei popoli che sottomette, è posseduta dalla passione del potere; nell'altra prestano servizio vicendevole nella carità chi è posto a capo provvedendo, e chi è sottoposto adempiendo. La prima, nei suoi uomini di potere, ama la propria forza; la seconda dice al suo Dio: Ti amo, Signore, mia forza.

Nella prima città, perciò, i sapienti, che vivono secondo l'uomo, hanno cercato i beni del corpo o dell'anima o tutti e due; oppure quanti hanno potuto conoscere Dio non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti (cioè gonfiandosi nella loro sapienza sotto il potere dell'orgoglio), sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incormttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili (nella pratica di questa idolatria essi sono stati alla testa dei popoli o li hanno seguiti). Hanno venerato e adorato la creatura alposto del Creatore, che è benedetto nei secoli. Nell'altra città invece non v'è sapienza umana afl'infuori della pietà, che fa adorare giustamente il vero Dio e che attende come ricompensa nella società dei santi, uomini e angeli, che Dio sia tutto in tutti.

(AGOSTINO, De civitate Dei XIV, 28)

nel tendere alla pace si incontrano città terrena e città celeste

Perciò, come l'anima è la vita della carne, così Dio è la vita beata dell'uomo, secondo quanto dicono le sacre scritture degli Ebrei: "Beato il popolo il cui Dio è il Signore". Infelice quindi il popolo estraniato da questo Dio! Anch'esso tuttavia ama una sua pace che non è da disprezzarsi e che però non pdssederà alla fine poiché non ne fa buon uso prima della fine. Ma che nel frattempo ce l'abbia in questa vita, anche a noi preme; poiché, finché le due città sono confuse, anche noi godiamo della pace di Babilonia; in tanto il popolo di Dio si libererà da questa attraverso la fede, in quanto sarà provvisoriamente pellegrino presso di essa. Per questo motivo anche l'apostolo ha raccomandato alla chiesa di pregare per i re e i dignitari di Babilonia, aggiungendo: "affinché possiamo condurre una vita tranquilla e serena in tutta pietà e carità"; e il profeta Geremia, mentre preannunciava all'antico popolo di Dio la cattività e trasmetteva l'ordine di Dio di recarsi docilmente a Babilonia facendo anche di questa sofferenza un servizio di Dio, lo ammonì anch'egli di pregare per quella città, poiché, diceva, "nella sua pace sta la vostra pace", una pace temporale, beninteso, che è comune ai buoni e ai malvagi.

Quanto alla pace che è a noi propria, essa è oggi unita a Dio per fede, nefl'eternità sarà con Lui nella visione. Ma quaggiù sia la pace comune sia quella che ci è propria è tale che procura sollievo nella pena piuttosto che gioia nel benessere. Anche la nostra stessa giustizia, sebbene sia vera, perché vero è il bene, al quale si riferisce, tuttavia in questa vita è presente in misura così ridotta che ha il significato più di remissione dei peccati che di perfezione delle virtù. Testimone di ciò è la preghiera dell'intera città di Dio pellegrina sulla terra; attraverso tutte le sue membra essa grida verso Dio: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Né questa preghiera è efficace per coloro la cui fede, separata dalle opere, è morta; ma per quelli in cui la fede è resa operante attraverso la carità. Ché in effetti la ragione, pur sottomessa a Dio, in questa condizione mortale e in questo "corpo corruttibile, che appesantisce l'anima" non può tenere i vizi perfettamente sotto controllo. Per questo ai giusti è indispensabile tale preghiera, perché, sebbene la ragione si imponga, non può mai imporsi ai vizi senza conflitto. In ogni caso, poiché ci troviamo in questa condizione di insufficienza, qualcosa si insinuerà in colui che lotta coraggiosamente come in colui che domina su nemici di tal fatta avendoli vinti e sottomessi, per cui - se non nell'azione, che si può più facilmente controllare - egli peccherà certamente nella parola, che è fuggevole, o nel pensiero, che è passeggero. Perciò, per quanto ci si imponga ai vizi, non si ha una pace piena, poiché quelli che resistono non saranno debeeati senza un pericoloso combattimento e di quelli che sono stati vinti non si trionferà restando sicuri in ozio; ma conservando su di essi un'autorità continua e sollecita.

In mezzo a tutte queste tentazioni, dunque, alle quali la parola divina accenna quando dice "non è forse tentazione la vita umana sulla terra?", chi presumerà di vivere così virtuosamente da non avere bisogno di chiedere a Dio perdono dei propri peccati, se non l'uomo orgoglioso? Egli non è davvero grande, ma tronfio e tracotante, e colui che elargisce la sua grazla agli umili gli resisterà secondo giustizia. Per questo è scritto: "Dio resiste ai superbi e dà invece agli umili la Sua grazig". Quaggiù dunque giustizia è per ciascuno il comando di Dio sull'uomo obbediente, dell'anima sul corpo, della ragione sui vizi, anche su quelli che si ribellano, sia che li si sottometta sia che si resista loro; ed è invocare la benedizione di Dio sui meriti e il perdono dei peccati e adempiere al ringraziamento per i beni ricevuti. Ma in quella pace finale, cui codesta giustizia è da considerarsi riferita strumentalmente, non ci sarà bisogno che la ragione comandi sui vizi, che non esisteranno, poiché la natura, risanata nell'immortalità e nell'incorruttibilità, non avrà vizi e non ci sarà nulla, né in noi né in altro, ad opporre resistenza a nessuno di noi. Ma Dio comanderà sull'uomo, l'anima sul corpo, e tanto facile e dolce sarà qui l'obbedire quanto felice il vivere e il regnare. E questo sarà quivi eterno per tutti e per ciascuno, e si sarà certi di tale eternità, e perciò la pace di questa beatitudine e la beatitudine di questa pace sarà il bene supremo.

Al contrario, per coloro che non appartengono a questa città di Dio, vi sarà un'eterna miseria, che viene anche chiamata morte seconda, poiché non si può dire né dell'anima né del corpo che ivi vivranno, in quanto quella sarà esclusa dalla vita di Dio e questo sarà sottoposto a eterni tormenti; e questa morte seconda sarà perciò perfino più dura, proprio perché la morte non potrà mettervi fine.

Ora, come la miseria è l'opposto della beatitudine e la morte della vita, così la guerra sembra esserlo della pace. Se la pace è celebrata ed esaltata come fine dei buoni, ci si chiede dunque a buon diritto che tipo di guerra debba essere computata al contrario come termine della malvagità. Ma chi chiede questo, guardi a ciò che in guerra è nocivo e funesto, e non vedrà nient'altro che opposizione e conflitto tra forze antagoniste. Quale guerra, quindi, si può immaginare più crudele e amara di quella in cui la volontà si oppone a tal punto alla passione e la passione alla volontà che la fine del conflitto non verrà dalla vittoria di nessuna delle due parti, e in cui la forza del dolore combatte contro la natura stessa del corpo così che nessuna delle due cede all'altra? Quaggiù, quando si consumi una simile lotta, o è il dolore a trionfare e la morte a mettere fine a tutte le sofferenze, oppure vince la natura e la salute cancella il dolore. Là, per contro, il dolore persiste nel torturare, mentre la natura continua a subire; poiché né l'uno né l'altra si arrendono, affinché il patimento non abbia mai fine.

(AGOSTINO, De civitate Dei XIX, 26-28)

il tempo in S.Agostino

che cosa è il tempo

"Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra. Così scrisse Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te a te. Ora non mi sta innanzi. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei, lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole. [ ...] Non sono forse pieni della loro vecchiezza quanti ci dicono: "Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti continuano, stava ozioso senza operare, perché anche dopo non rimase sempre nello stato primitivo, sempre astenendosi dall'operare?". [ ] Quanti parlano così non ti comprendono ancora o sapienza di Dio, luce delle menti. Non comprendono ancora come nasce ciò che nasce da te e in te. [ ] Ecco come rispondo a chi chiede: "Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra?". Non rispondo come quel tale, che, dicono, rispose eludendo con una facezia l'insidiosità della domanda: "Preparava la geenna per chi scruta i misteri profondi". Altro è capire, altro schernire. Io non risponderò così. Preferirei rispondere: "Non so ciò che non so", anziché in modo d'attirare il ridicolo su chi ha posto una domanda profonda, è la lode a chi diede una risposta falsa. Invece dico che tu, Dio nostro, sei il creatore di ogni cosa creata; e se col nome di cielo e terra s'intende ogni cosa creata, arditamente dico: "Dio, prima di fare il cielo e la terra, non faceva alcunché". Infatti se faceva qualcosa, che altro faceva, se non una creatura? [...] Se qualche spirito leggero, vagolando fra le immagini del passato, si stupisce che tu, Dio che tutto puoi e tutto crei e tutto tieni, autore del cielo e della terra, ti sia astenuto da tanto operare, prima di una tale creazione, per innumerevoli secoli, si desti e osservi che il suo stupore è infondato. Come potevano passare innumerevoli secoli, se non li avessi creati tu, autore e iniziatore di tutti i secoli? Come sarebbe esistito un tempo non iniziato da te? e come sarebbe trascorso, se non fosse mai esistito? Tu dunque sei l'iniziatore di ogni tempo, e se ci fu un tempo prima che tu creassi il cielo e la terra non si può dire che ti astenevi dall'operare. Anche quel tempo era opera tua, e non poterono trascorrere tempi prima che tu avessi creato un tempo. Se poi prima del cielo e della terra non esisteva tempo, perché chiedere cosa facevi allora? Non esisteva un allora dove non esisteva un tempo. Ma non è nel tempo che tu precedi i tempi. Il tuo oggi è l'eternità. Perciò generasti coeterno con te Colui, cui dicesti: Oggi ti generai. Tu creasti tutti i tempi, e prima di tutti i tempi tu sei, e senza alcun tempo non vi era tempo. [...] Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l'hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos'è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo altri parlare. Cos'è dunque il tempo? Se nessun m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di lui che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere. [...]

Il tempo è misurazione

(AGOSTINO, Confessioni XI, 15,18 - 22,28)(AGOSTINO, Confessioni XI, 3,5 - 14,17)

Eppure [At tamen] parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendoci soltanto al passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima; e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi, di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo dire di un tempo che è lungo; ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che sarà lungo. Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l'uomo anche qui? Perché, questo tempo passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quand'era ancora presente? Poteva essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta passato, non era più, quindi non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto. Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremmo nulla, che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già passato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece, cessò all'istante di essere lungo, poiché cessò di essere. [... ] Consideriamo dunque, anima umana, essendoti dato di percepire e misurare le more del tempo, se il tempo presente può essere lungo. Che mi risponderai? Cento anni presenti sono un tempo lungo? Considera prima se possono esser presenti cento anni. Se è in corso il primo di questi cento anni, esso è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, quindi non sono ancora. Se invece è in corso il secondo anno, il primo è ormai passato, il secondo presente, tutti gli altri futuri. Così per qualsiasi anno intermedio nel numero dei cento, che si supponga presente: gli anteriori saranno passati, i posteriori futuri. Perciò cento anni non potranno essere tutti presenti. Considera ora se almeno quell'unico che è in corso sia presente. Se è in corso il primo dei suoi mesi, tutti gli altri sono futuri; se il secondo, il primo è ormai passato, gli altri non sono ancora. Dunque neppure l'anno in corso è presente tutto, e se non è presente tutto, un anno non è presente, perché un anno si compone di dodici mesi, e ciascuno di essi, qualunque sia, è presente quando è in corso, mentre tutti gli altri sono passati o futuri. Ma poi, neppure il mese in corso è presente: è presente un giorno solo, e se il primo, tutti gli altri sono futuri; se l'ultimo, tutti gli altri sono passati; se uno qualunque degli intermedi, alcuni sono passati, altri futuri. Ecco cos'è il tempo presente, l'unico che trovavamo possibile chiamare lungo: ridotto stentamente alla durata di un giorno solo. Ma scrutiamo per bene anche questo giorno, perché neppure un giorno solo è presente tutto. Le ore della notte e del giorno assommano complessivamente a ventiquattro. Per la prima di esse tutte le altre sono future, per l'ultima passate, per qualunque delle intermedie passate le precedenti, future le seguenti. Ma quest'unica orási svolge essa stessa attraverso fugaci particelle: quanto ne volò via, è passato; quanto le resta, futuro. Solo se si concepisce un periodo di tempo che non sia più possibile suddividere in parti anche minutissime di momenti, lo si può dire presente. Ma esso trapassa così furtivamente dal futuro al passato, che non ha una pur minima durata. Qualunque durata avesse, diventerebbe divisibile in passato e futuro; ma il presente non ha nessuna estensione. [... 1 Eppure (Et tamen), Signore, noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l'uno è più lungo o più breve di un altro, rispondendo che questo è doppio o triplo, quello è semplice, oppure questo è lungo quanto quello. Ma si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo; essa è legata a una nostra percezione. I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l'inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è. Io cerco, Padre, non affermo. Dio mio, vigilami e guidami. Chi vorrà dirmi che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e insegnato ai bambini, ossia il passato, il presente e il futuro, ma che vi è solo il presente, poiché gli altri due non sono? 0 forse anche gli altri due sono, però fl presente esce da un luogo occulto, ahorché da futuro diviene presente, così come si ritrae in un luogo occulto, allorché da presente diviene passato? In verità, chi predisse il futuro, dove lo vide, se il futuro non è ancora? Non si può vedere ciò che non è. Così chi narra il passato, non narrerebbe certamente il vero, se non lo vedesse con l'immaginazione. Ma se il passato non fosse affatto, non potrebbe in nessun modo essere visto. Bisogna concludere che tanto il futuro quanto il passato sono. Lasciami estendere, o Signore, la mia ricerca, tu speranza mia. Fa che nulla disturbi il mio sforzo. Se il futuro e il passato sono, desidero sapere dove sono. Se ancora non riesco, so tuttavia che, ovunque siano, là non sono né futuro né passato, ma presente. Futuro anche là, il futuro là non esisterebbe ancora; passato anche là, il passato là non esisterebbe più. Quindi ovunque sono, comunque sono, non sono se non presenti. Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. è inesatto dire che i tempi s e uturo. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. -Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell'animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, te del present-t- áwì si permettano queste espres! metto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l'espressione abusiva entrata nell'uso; si dica pure così: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente ma si riconosce cosa vogliamo dire. Dissi poc'anzi che misuriamo il tempo al suo passaggio. Così possiamo dire che questa porzione di tempo è doppia di quella, che è semplice, o lunga quanto quella; oppure, misurandola, indicare qualsiasi altro rapporto fra porzioni di tempo. In tal modo, come dicevo, misuriamo il tempo al suo passaggio. Se mi si chiedesse: "Come lo sai?", risponderei: "Lo so perché misuriamo, e non possiamo misurare ciò che non è, e non è né passato né futuro". Il tempo presente, poi, come lo misuriamo, se non ha estensione? Lo si misura mentre passa; passato, non lo si misura, perché non vi sarà nulla da misurare. Ma da dove, per dove, verso dove passa il tempo, quando lo si misura? Non può passare che dal futuro, attraverso il presente, verso il passato, ossia da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Ma noi non misuriamo il tempo in una certa estensione? Infatti non parliamo di tempi semplici, doppi, tripli, uguali, e di altri rapporti del genere, se non riferendoci a estensioni di tempo. In quale estensione dunque misuriamo il tempo al suo passaggio? Nel futuro, da dove passa? Ma ciò che non è ancora, non si misura. Nel presente, per dove passa? Ma una estensione inesistente non si misura. Nel passato, verso dove passa? Ma ciò che non è più, non si misura. Il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di questi problemi familiari e insieme astrusi. (AGOSTINO, Confessioni XI, 15,18)

L'anima misura il tempo

(AGOSTINO, Confessioni XI, 24,31 - 28,37)

Dunque il tempo non è il movimento dei corpi [o degli astri]. Ti confesso, Signore, d'ignorare tuttora cosa sia il tempo; d'altra parte ti confesso, Signore, di sapere che pronuncio queste parole nel tempo; che da molto ormai sto parlando del tempo, e che proprio questo molto non lo è per altro, che per la durata del tempo. Ma come faccio a saperlo, se ignoro cosa sia il tempo? O chissà, non so esprimere ciò che so? Ahimè, ignoro persino cosa ignoro. Ecco, Dio mio, davanti a te cbe non mento: quale la mia parola, tale il mio cuore. Tu, Signore Dio mio, illuminando la mia lucerna illuminerai le mie tenebre. [...] Non è veritiera la confessione della mia anima, quando ti confessa che misuro il tempo? Dunque, Dio mio, io misuro e non so cosa misuro. Misuro il movimento di un corpo per mezzo del tempo, ma non misuro ugualmente anche il tempo? Potrei misurare il movimento di un corpo, la sua durata, la durata del suo spostamento da un luogo afl'altro, se non misurassi il tempo in cui si muove? Ma questo tempo con che lo misuro? Si misura un tempo più lungo con un tempo più breve come con la dimensione di un cubito quella di un trave? Così ci vedono misurare la dimensione di una sillaba lunga con quella di una breve, e dirla doppia; così misuriamo la dim'ensione dei poemi con la dimensione dei versi, e la dimensione dei versi con la dimensione dei piedi, e la dimensione dei piedi con la dimensione delle sillabe, e la dimensione delle sillabe lunghe con quella delle brevi: non sulle pagine, perché così misuriamo spazi e non tempi, ma al passaggio delle parole, mentre vengono pronunciate. [...] Ne ho tratto l'opinione che il tempo non sia se non un'estensione. Di che? Lo ignoro. Però sarebbe sorprendente, se non fosse un'estensione dello spirito stesso. Perché, cosa misuro, di grazia, Dio mio, quando affermo o imprecisamente: "Questo tempo è più lungo di quello", o anche precisamente:"