La copertina del libro

Medioevo filosofico: fede e ragione

la vita come accoglienza di un dono: fede e ragione

da Medioevo filosofico

«Tipico della concezione medioevale, che era una concezione quasi unanimemente cristiana, era il ritenere che per l’umanità fosse maggiore la parte di passività che non quella di attività: nel senso che il problema fondamentale della vita è accogliere l’Iniziativa di un Altro, piuttosto che darsi da fare per cercarne il senso con le sole proprie forze. Si tratta di accogliere l’iniziativa di quell’Altro che è Dio: Lui per primo, senza avercelo chiesto, ci ha creati e ha predisposto tutto, inclusa ogni circostanza della vita, per il nostro bene. L’attività fondamentale dell’uomo allora è risposta a tale Iniziativa, primaria, del Creatore; è accoglienza di un dono, storico e determinato, piuttosto che affannata ricerca di un indeterminato, o di un sogno, o comunque di un progetto che pretenda di riplasmare radicalmente tutto, come se si partisse dal nulla.

Tommaso d’Aquino, uno dei maggiori pensatori del Medioevo, insegnava al riguardo che la grazia ci viene data, ci previene e ci sostiene, allo stesso modo con cui la luce del sole circonda e guida tutti coloro che non tengono chiusi gli occhi:

«Solo coloro che le frappongono un ostacolo [impedimentum] si privano della grazia»; è «come, quando il sole splende, si dà la colpa a chi chiude gli occhi, se» - non vedendoci - «gli capita qualcosa di male».

Il sole c’è, la sua luce c’è, e illumina: basta aprire gli occhi, basta riconoscere l’evidenza di ciò che ci si offre allo sguardo. Se poi uno vuole chiudere gli occhi, è responsabilità sua, non può certo dire che sia il sole a non illuminarlo. Così l’iniziativa di Dio, la grazia, c’è, ci viene incontro: sta all’umanità non frapporre ostacoli ad essa, lasciarla fluire senza ostruirne il corso.

Se è Dio che per primo ha preso l’iniziativa, e all’uomo tocca essenzialmente rispondere, il compito fondamentale - accogliere il Dono che ci viene fatto - a livello conoscitivo diventa verificare la fede, che è il riconoscimento di quel Dono, che è poi una presenza, che ci viene incontro. È infatti più importante e decisivo quello che viene dato, di quello che potrebbe essere raggiunto ricercando con la ragione. Anzitutto quindi c’è la fede: il lavoro della ragione è subordinato.

Questo ha delle conseguenze importanti anzitutto sull’atteggiamento mentale dell’autore medioevale, che è diametralmente opposto a quello prevalente in età moderna e contemporanea. Molti autori moderni infatti rivendicano gelosamente il copyright di quanto pensano, tanto più soddisfatti quanto più possono attribuirsi il loro pensiero come un loro “prodotto” originale, senza debiti verso altri. È invece tipico dei pensatori medioevali collocarsi di buon grado nell’alveo della tradizione, ben lieti di concordare con altri, e se un altro ha già pensato e detto ciò che essi pensano, tanto meglio: è segno che si tratta di qualcosa di vero.

Ulteriore conseguenza è che il successo immediato non è perseguito come criterio decisivo per il proprio lavoro (intellettuale): il criterio è aderire alla verità, e questo richiede di ascoltare con attenzione quanto altri hanno già detto, concedendo meno spazio possibile a un ansioso arrivismo.

Le cose più importanti infatti sono alla portata di tutti, e sono già state rese conoscibili: il già prevale sul non-ancora, e il non-ancora è solo l’approfondirsi del già.

 

1) Infatti il già supremo e centrale è l’Avvenimento di Cristo, cuore e sintesi della Rivelazione e della storia della Salvezza: a livello conoscitivo ciò significa che il “già” supremo e centrale è la Sacra Scrittura, la Bibbia, quello che certi Padri della Chiesa chiamavano il Corpo biblico di Cristo. Tutto ciò che di essenziale può interessare la vita dell’uomo è già lì, almeno implicitamente, contenuto. Su questo vi è, nella filosofia cristiana medioevale, una vasta concordanza, anche se poi esistono diversi modi di intendere il rapporto fede/ragione, senza però che ciò intacchi alcuni punti fermi, che ora vediamo sinteticamente.

Per esprimere il rapporto fede/ragione con una metafora, potremmo paragonare la fede ad un castello, che sovrasta, dall’alto di una collina, la città e il contado, i suoi boschi, i campi e le case in esso sparse, ossia l’ambito naturale, oggetto proprio della ragione. Quest’ultima interagisce con la fede essenzialmente in tre modi: 1) anzitutto indica la via per giungere al castello (e allora abbiamo la teologia apologetica e i cosiddetti praeambula fidei, filosofici, su cui torneremo); 2) in secondo luogo essa aiuta ad esplorare l’interno del castello, cioè a sviluppare il contenuto della fede (questa ragione, interna alla fede, dà luogo alla teologia); 3) infine, la ragione, dall’alto del castello, è a sua volta aiutata dalla fede a vedere meglio quanto è fuori del castello, nel senso che la fede permette di vedere da una prospettiva nuova, e migliore (dall’alto del castello), le stesse cose naturali, quelle con cui ha a che fare chiunque, credente o meno, usi la ragione (e si ha allora la filosofia cristiana).

Perciò è ragionevole che l’uomo si rivolga alla fede, per meglio conoscere lo stesso ambito naturale, che di per sé, lo ripetiamo, è oggetto della ragione: la fede, a livello naturale, non fa conoscere nuovi oggetti, ma fa conoscere meglio quelli che già la ragione conosce; in altre parole abilita la ragione a vedere e a giudicare meglio. Abbiamo visto la metafora del castello, ma potremmo anche fare altri paragoni per questo fenomeno, del rapporto fede/ragione, tenendo conto di quel fattore esistenzialmente rilevante che è il peccato, e la disperazione che ne consegue. Ad esempio, don Luigi Giussani proponeva questa metafora: nell’uso della ragione siamo come uno che debba camminare lungo una linea dritta, senza uscire da un ristrettissimo margine a destra e a sinistra; ora, a piano terra uno lo può fare agevolmente, ma se si trovasse sospeso all’altezza di un grattacielo, anche a prescindere da fattori esterni di disturbo, l’impresa si rivelerebbe difficilissima, per non dire praticamente impossibile. Il senso di questa metafora è questo: essere a piano terra vuol dire essere nella certezza della fede, sapere che la linea di una compiuta razionalità non è sospesa nel vuoto di una pura logica, di per sé stringente (la corda tiene) ma incompiuta (sospesa nel vuoto), perché incapace di spiegare il mistero della morte e del male (a partire dal proprio male, dal peccato), bensì è appoggiata e sostenuta da una pienezza di Verità, che dà significato a tutto. O, ancora potremmo usare la metafora di uno che nuoti nel mare: il mare è lo stesso, la sua abilità natatoria e le sue forze fisiche sono sempre quelle, ma un conto è nuotare in solitudine e senza vedere alcuna meta, altra cosa nuotare verso una terra che c’è, e con a fianco un’imbarcazione con persone amiche che incoraggiano. Identico è il mare (l’ambito naturale, con le sue leggi e la sua struttura intelligibile), identica è la tecnica natatoria (la capacità di giudicare e argomentare), ma ben diverso può essere l’esito effettivo, per l’assenza o la presenza di un significato e di un aiuto.»

Vita = dentro un Disegno buono

predomina l'accettazione di tale Disegno sulla ricerca affannosa

atteggiamento di umiltà

Lavoro intellettuale = dentro un contesto di verità già dato (traditum/tradizione)

predomina l'assimilazione del già dato (=commento alla auctoritas) sulla elaborazione di novità a tutti i costi

disponibilità all'ascolto, non sottolineatura dell'apporto individuale